La partecipazione dei laici alla salvezza universale
Catechesi sul ruolo dei laici nella Chiesa
Autore: San Giovanni Paolo II
1. Abbiamo già osservato che l’indole secolare, caratteristica della vita dei laici, non può essere concepita secondo una dimensione puramente “mondana”, perché include il rapporto dell’uomo con Dio entro quella comunità di salvezza che è la Chiesa. Vi è dunque nel cristiano un valore trascendente della laicità, che deriva dal Battesimo col quale l’uomo diventa figlio adottivo di Dio e membro del Corpo mistico di Cristo, la Chiesa.
Per questo abbiamo pure detto, fin dalla prima catechesi sui laici, che questo vocabolo – “laici” – solo abusivamente può essere inteso e impiegato in opposizione a Cristo o alla Chiesa, come indicativo di un atteggiamento di separazione, di indipendenza, o anche solo di indifferenza. Nel linguaggio cristiano, “laico” è colui che è membro del Popolo di Dio e nello stesso tempo vive inserito nel mondo.
2. L’appartenenza dei laici alla Chiesa, come una sua parte viva, attiva e responsabile, deriva dalla stessa volontà di Gesù Cristo, che ha voluto la sua Chiesa aperta a tutti. Qui basti ricordare il comportamento del padrone della vigna, nella parabola così significativa e suggestiva narrata da Gesù. Vedendo degli uomini disoccupati, il padrone dice loro: “Andate anche voi nella mia vigna” (Mt 20, 4). Questo appello, commenta il Sinodo dei Vescovi del 1987 (Christifideles Laici, 2), “non cessa di risuonare da quel lontano giorno nel corso della storia: è rivolto a ogni uomo che viene in questo mondo”. “La chiamata non riguarda soltanto i Pastori, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, ma si estende a tutti: anche i fedeli laici sono personalmente chiamati dal Signore, dal quale ricevono una missione per la Chiesa e per il mondo”. Tutti sono invitati a “lasciarsi riconciliare con Dio” (2 Cor 5, 20), a lasciarsi salvare e a cooperare alla salvezza universale, perché Dio “vuole che tutti siano salvi” (1 Tm 2, 4). Tutti sono invitati con le loro qualità personali a lavorare nella “vigna” del Padre, dove ognuno ha il suo posto e il suo premio.
3. La chiamata dei laici comporta una loro partecipazione alla vita della Chiesa ed una conseguente intima comunione alla vita stessa di Cristo. È dono divino ed è, al tempo stesso, impegno di corrispondenza. Non chiedeva forse Gesù ai discepoli che lo avevano seguito di rimanere costantemente uniti a lui e in lui, e di lasciar irrompere nella loro mente e nel loro cuore il suo stesso slancio di vita? “Rimanete in me, e io in voi. Senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 4-5). Come per i Sacerdoti, così per i laici, la vera fecondità dipende dall’unione a Cristo.
È vero che il “senza di me non potete far nulla” non significa che senza Cristo essi non possano esercitare le loro facoltà e qualità nell’ordine delle attività temporali; ma quella parola di Gesù, trasmessa dal Vangelo di Giovanni, ammonisce noi tutti, chierici e laici, che senza Cristo non possiamo produrre il frutto più specifico della nostra esistenza cristiana. Per i laici tale frutto è specificamente il contributo alla trasformazione del mondo mediante la grazia, e all’edificazione di una società migliore. Solo con la fedeltà alla grazia è possibile aprire nel mondo le vie della grazia: sia con l’adempimento dei propri compiti familiari, specialmente nell’educazione dei figli, sia nel proprio lavoro, sia nel servizio alla società, a tutti i livelli e in tutte le forme di impegno per la giustizia, l’amore e la pace.
4. In armonia con questa dottrina evangelica, ripetuta da san Paolo (cf. Rm 9, 16) e ribadita da sant’Agostino (cf. De correptione et gratia, c. 2), il Concilio di Trento ha insegnato che, pur essendo possibile fare delle “opere buone” anche senza essere in stato di grazia (cf. Denz. 1957), tuttavia solo la grazia dà un valore salvifico alle opere (Ivi, 1551). A sua volta il Pontefice san Pio V, pur condannando la sentenza di chi sosteneva che “tutte le opere dei senza-fede sono peccati e le virtù dei filosofi [pagani] non sono altro che vizi” (Ivi, 1925), rifiutava altresì ogni naturalismo e legalismo, per affermare che il bene meritorio e salvifico deriva dallo Spirito Santo che infonde la grazia nel cuore dei figli adottivi di Dio (Ivi, 1912-1915). È la linea di equilibrio seguita da san Tommaso d’Aquino, che alla questione “se l’uomo possa volere e compiere il bene, senza la grazia”, rispondeva: “Non essendo la natura umana del tutto corrotta col peccato, al punto di essere privata di ogni bene naturale, l’uomo può compiere in virtù della sua natura alcuni beni particolari, come costruire case, piantare vigne e altre cose del genere [campo dei valori e delle attività di ordine lavorativo, tecnico, economico…], ma non può compiere tutto il bene a lui connaturale… come un infermo, da se stesso, non può compiere perfettamente i movimenti di un uomo sano, se non viene risanato con l’aiuto della medicina…” (Summa theologiae, I-II, q. 109, a. 2). Ancor meno può compiere il bene superiore e soprannaturale (“bonum superexcedens, supernaturale”), che è opera delle virtù infuse, e soprattutto della carità derivante dalla grazia (cf. Ivi).
Come si vede, anche su questo punto riguardante la santità dei laici, è coinvolta una delle tesi fondamentali della teologia della grazia e della salvezza!
5. I laici possono attuare nella propria vita la conformazione al mistero dell’Incarnazione, proprio mediante l’indole secolare del loro stato. Sappiamo infatti che il Figlio di Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana, facendosi simile a noi in tutto, escluso il peccato (cf. Eb 2, 17; 4, 15). Gesù si è definito come “colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo” (Gv 10, 36). Il Vangelo ci attesta che l’eterno Figlio si è pienamente impegnato nella nostra condizione vivendo nel mondo la propria consacrazione. La vita integralmente umana di Gesù nel mondo è il modello che illumina e ispira la vita di tutti i battezzati (cf. Gaudium et Spes, 32): è il Vangelo stesso che invita a scoprire nella vita di Cristo una perfetta immagine di quella che può e deve essere la vita di quanti lo seguono come discepoli e partecipano alla missione e alla grazia dell’apostolato.
6. In particolare, possiamo notare che, scegliendo di vivere la vita comune degli uomini, il Figlio di Dio ha conferito a questa vita un nuovo valore, sollevandola alle altezze di quella divina (cf. S. Tommaso, Summa theologiae, III, q. 40, aa. 1-2). Essendo Dio, egli ha immesso anche nei gesti più umili dell’esistenza umana una partecipazione della vita divina. In lui noi possiamo e dobbiamo riconoscere e onorare il Dio che, come uomo, è nato e vissuto come noi, e ha mangiato, bevuto, lavorato, esercitato le attività necessarie a tutti, sicché su tutta la vita, su tutte le attività degli uomini, elevate a un livello superiore, si riflette il mistero della vita trinitaria. Per chi vive nella luce della fede, come i laici cristiani, il mistero dell’Incarnazione penetra anche le attività temporali, infondendovi il lievito della grazia.
Alla luce della fede, i laici che seguono la logica dell’Incarnazione, avvenuta per la nostra Redenzione, partecipano anche al mistero della Croce salvifica. Nella vita di Cristo l’Incarnazione e la Redenzione costituiscono un solo mistero d’amore. Il Figlio di Dio si è incarnato per riscattare l’umanità mediante il suo sacrificio: “Il Figlio dell’uomo è venuto… per dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45; Mt 20, 28).
Quando la Lettera agli Ebrei afferma che il Figlio è diventato simile a noi in tutto, escluso il peccato, parla di somiglianza e di condivisione delle prove dolorose della vita presente (cf. Eb 4, 15). Anche nella Lettera ai Filippesi si legge che Colui che è diventato simile agli uomini si è fatto obbediente fino alla morte di croce (cf. Fil 2, 7-8).
Come l’esperienza delle difficoltà quotidiane nella vita di Cristo culmina nella Croce, così nella vita dei laici le prove quotidiane culminano nella morte unita a quella di Cristo, che ha vinto la morte. In Cristo e in tutti i suoi seguaci, Sacerdoti e laici, la Croce è la chiave della salvezza.
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