10 minuti

Lavora e prega

Tratto da "Lavorare bene, lavorare per amore" - IV ( sezione 2)

Autore: Javier López Díaz

«Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» .
Molte volte, nel corso della storia, si è colta l’occasione delle figure di Maria e di Marta per rappresentare la vita contemplativa e la vita attiva, come due generi di vita, il primo dei quali sarebbe più perfetto, in base alla frase del Signore: «Maria si è scelta la parte migliore».
In genere questi termini sono stati riferiti alla vocazione religiosa, intendendo per vita contemplativa, a grandi tratti, quella di quei religiosi che si allontanano materialmente dal mondo per dedicarsi alla preghiera, e per vita attiva quella di quegli altri che svolgono un certo numero di attività, come l’insegnamento della dottrina cristiana, l’assistenza dei malati e altre opere di misericordia.
Presi così i termini, è stato affermato per secoli che è possibile essere contemplativi nell’azione. Il significato classico di questa espressione non è che la contemplazione è possibile nelle attività professionali, familiari e sociali, proprie della vita dei comuni fedeli, ma che essa si riferisce alle azioni apostoliche e di misericordia all’interno del percorso della vocazione religiosa.
San Josemaría ha insegnato ad approfondire le parole del Signore a Marta, facendo notare che non c’è nessun contrasto tra la contemplazione e la realizzazione, nel modo più perfetto pos- sibile, del lavoro professionale e dei doveri ordinari di un cristiano.
Nel capitolo precedente abbiamo già esaminato che cosa s’intende per contemplazione cristiana: quella preghiera semplice di tante anime che, amando molto Dio ed essendo docili allo Spirito Santo, cercando in ogni cosa l’identificazione con Cristo, sono aiutate dal Paraclito a penetrare nelle profondità della vita intima della Santissima Trinità, delle sue opere e dei suoi disegni, con una sapienza che dilata sempre più il cuore e rende più acuta la conoscenza. Una preghiera nella quale «le parole vengono meno, la lingua non riesce ad esprimersi; anche l’intelletto si acquieta. Non si ragiona, si guarda! E l’anima prorompe ancora una volta in un cantico nuovo, perché si sente e si sa ricambiata dallo sguardo amoroso di Dio, in ogni istante della giornata».
Ora conviene che ci fermiamo a considerare tre modalità nelle quali può avvenire la contemplazione: primo, nei momenti dedicati esclusivamente all’orazione; secondo, mentre si lavora o si compie un’attività che non richieda tutta l’attenzione della mente; e, infine, attraverso il la- voro stesso, anche quando richiede una concentrazione esclusiva. Questi tre canali compongono insieme la vita contemplativa, facendo della vita ordinaria – come diceva san Josemaría – un vivere in Cielo e sulla terra contemporaneamente.
Anzitutto la contemplazione si deve chiedere a Dio e si deve cercare nelle pratiche di pietà cristiana che debbono scandire la nostra giornata, e in modo molto speciale nei momenti dedicati esclusivamente all’orazione mentale.
San Josemaría ha insegnato a cercare la contemplazione in questi momenti: nel contemplare la Vita del Signore, nel guardarlo nell’Eucaristia, nel curare un rapporto con le Tre Persone divine lungo la via dell’Umanità Santissima di Gesù Cristo, nell’andare a Gesù attraverso Maria… Non possiamo limitarci a ripetere le preghiere vocali nell’orazione mentale, anche se forse sarebbe meglio ripeterle continuamente, ma considerandole come la porta che introduce alla contemplazione.
Anche in un rapporto umano, quando s’incontra un amico, si è soliti rivolgergli alcune frasi di saluto per iniziare la conversazione. Però il rapporto non può limitarsi a questo. La conversazione deve continuare con frasi più personali, fino a che diventino superflue perché si stabilisce una profonda sintonia e una grande familiarità. A maggior ragione nel rapporto con Dio. «Cominciamo con le orazioni vocali. […] Dapprima una giaculatoria, poi un’altra, e un’altra ancora… finché questo fervore appare insufficiente, perché le parole sono povere… e allora subentra l’intimità divina, lo sguardo fisso in Dio, senza soste e senza mai stancarsi» .
«”Et in meditatione mea exardescit ignis” – e, nella mia meditazione, si accende il fuoco –.
Per questo vai all’orazione: per fare di te stesso un falò, un fuoco vivo, che dia calore e luce» . I tratti di orazione ben fatti sono la caldaia che estende il proprio calore ai momenti della giornata.
Dal raccoglimento nei tratti di orazione; dal rapporto con il Signore cercato con diligenza in questi momenti, a volte mediante la meditazione di un testo che aiuti a concentrare la mente e il cuore in Dio; dall’impegno di evitare le distrazioni; dall’umiltà nel cominciare e ricominciare, senza contare nelle proprie forze ma nella grazia di Dio; in altre parole, dalla fedeltà quotidiana ai momenti di orazione dipende che divenga realtà, al di là di questi momenti, l’ideale di essere contemplativi in mezzo al mondo.
La contemplazione non si limita ai periodi di tempo dedicati all’orazione. Può aver luogo durante la giornata, in mezzo alle occupazioni ordinarie, mentre si compiono attività che non richiedono tutta l’attenzione della mente e che si debbono fare, o nei momenti di pausa di un lavoro qualunque.
Si può contemplare Dio mentre si cammina per la strada, mentre si svolgono alcuni compiti familiari e sociali che sono abituali nella vita di ogni persona, o si realizzano lavori che ormai si padroneggiano senza problemi, o in occasione di una pausa di lavoro, o semplicemente ci si trova in una sala d’aspetto…
Come nei momenti di orazione, le giaculatorie possono aprire la strada alla contemplazione; anche in mezzo a queste altre occupazioni, la ricerca della presenza di Dio termina in una vita contemplativa, ancora più intensa, come il Signore ha fatto sperimentare a san Josemaría. «È incomprensibile – annota nei suoi Appunti intimi -: so di qualcuno che è freddo (nonostante la sua fede, che non ammette limiti) accanto al fuoco divinissimo del Tabernacolo e poi, in mezzo alla strada, fra il rumore di automobili, tram e persone, o mentre legge un giornale, sperimenta folli rapimenti di Amore di Dio» .
Questa realtà è assolutamente un dono di Dio, che però può essere ricevuto solamente da chi lo desidera in cuor suo e non lo rifiuta con le opere. Lo rifiuta colui che ha i sensi dispersi, o si lascia dominare dalla curiosità, o s’immerge in un turbine di pensieri e di immaginazioni inutili che lo distraggono e lo dissolvono; in una parola, colui che non sa stare in ciò che fa .
La vita contemplativa richiede mortificazione interiore, negarsi a se stesso per amore a Dio, perché Egli regni nel cuore e sia il centro al quale alla fin fine si dirigono i pensieri e gli affetti dell’anima.
Come nei momenti di orazione non ci si deve limitare a ripetere giaculatorie o fermarsi alla lettura e alla meditazione intellettuale, ma occorre cercare il dialogo con Dio fino ad arrivare, con la sua grazia, alla contemplazione, così anche nel lavoro, se vogliamo convertirlo in orazione, è necessario non accontentarsi di offrirlo all’inizio e ringraziare alla fine, o fare in modo di rinnovare questa offerta varie volte, uniti al Sacrificio dell’altare. Tutto questo è molto gradito al Signore, ma un figlio di Dio dev’essere audace e aspirare a qualcosa di più: a realizzare il proprio lavoro come Gesù a Nazaret, unito a Lui. Un lavoro nel quale, grazie all’amore soprannaturale con il quale viene compiuto, si contempla Dio che è Amore.
Dato che la contemplazione è come un anticipo della visione beatifica, fine ultimo della nostra vita, è logico che qualunque attività che Dio vuole che compiamo – come il lavoro e i compiti familiari e sociali, che sono Volontà sua per ciascuno di noi – potrebbe essere un canale per la vita contemplativa. Inoltre, dato che ognuna di queste attività si può compiere per e con amore a Dio, si può anche convertire in mezzo di contemplazione, che non è altro che un modo particolarmente familiare di conoscerlo e amarlo.
Un insegnamento costante e caratteristico di san Josemaría è che la contemplazione è possibile non solo mentre si realizza un’attività, ma anche per mezzo delle attività che Egli vuole che realizziamo, in quelle stesse attività e attraverso di esse, anche quando si tratta di lavori che richiedono tutta la concentrazione della mente. San Josemaría insegna che arriva un momento in cui non si è capaci di distinguere la contemplazione dall’azione, finendo, questi concetti, per avere un medesimo significato nella mente e nella consapevolezza.
In tal senso, appare illuminante una spiegazione di san Tommaso: quando di due cose una è la ragione dell’altra, l’attività dell’anima nell’una non impedisce né diminuisce l’attività nell’altra… E siccome Dio è considerato dai santi come la ragione di tutto quanto fanno o conoscono, la loro attività nel percepire le cose sensibili, o nel contemplare o fare qualunque altra cosa, in nulla impedisce loro la divina contemplazione, o viceversa . Ecco perché un cristiano che voglia ricevere il dono della contemplazione deve anzitutto mettere il Signore come fine delle proprie attività, realizzandole non quasi – hominibus placentes, sed Deo qui probat corda nostra – non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori .
Possiamo contemplare Dio nelle attività che realizziamo per amor suo, perché questo amore è partecipazione dell’Amore infinito che è lo Spirito Santo che scruta le profondità di Dio . Chi lavora per amore a Dio può rendersi conto – senza pensare ad altro, senza distrarsi – che lo ama quando lavora, con quell’amore che il Paraclito riversa nei cuori dei figli di Dio in Cristo .
Si comprende così che la contemplazione è possibile in attività che richiedono tutte le energie della mente, come – per esempio – lo studio o l’insegnamento.
Possiamo contemplare Dio attraverso il lavoro anche perché, come lo vediamo quando contempliamo le sue opere, nelle quali si manifesta la sua gloria, possiamo contemplarlo anche attraverso le nostre opere, nella misura in cui partecipano del suo potere creatore e in qualche modo lo prolungano.
Se un lavoro è fatto con amore, sarà un lavoro realizzato con la maggiore perfezione di cui siamo capaci in queste circostanze e rifletterà allora le perfezioni divine, come il lavoro di Cristo. Molte volte le rifletterà anche esternamente, perché il lavoro è riuscito bene e potremo contemplare un’opera ben fatta che manifesta le perfezioni di Dio. Però è anche possibile che un lavoro riesca male per circostanze estranee alla propria volontà e che, tuttavia, sia considerato ben fatto agli occhi di Dio perché sono state praticate le virtù cristiane, improntate dall’amore, e, nel realizzarlo, siamo cresciuti nell’identificazione con Cristo. Allora possiamo contemplare Dio anche negli effetti del nostro lavoro. In altre parole, può succedere che umanamente abbiamo avuto un insuccesso in un certo lavoro, ma che sia stato fatto bene davanti a Dio, con rettitudine d’intenzione, con spirito di servizio, con la pratica delle virtù: e cioè, con perfezione umana e cristiana. Un lavoro del genere è mezzo di contemplazione.
Il cristiano, che lavora e adempie i propri doveri per amore a Dio, lavora in unione vitale con Cristo. Le sue opere diventano opere di Dio, operatio Dei, e per ciò stesso sono mezzo di contemplazione. Ma non basta essere in grazia di Dio e che le opere siano moralmente buone; debbono inoltre essere permeate da una carità eroica e realizzate con le virtù eroiche, e con quel modo divino di operare che conferiscono i Doni dello Spirito Santo in chi è docile alla sua azione.
La contemplazione nella vita ordinaria fa pregustare l’unione definitiva con Dio nel Cielo. Mentre induce a operare con un amore sempre maggiore, accende il desiderio di vederlo non già mediante le attività che realizziamo, ma faccia a faccia. «Si vive allora come in cattività, come prigionieri. Mentre svolgiamo con la massima perfezione possibile, pur con i nostri errori e con i nostri limiti, i compiti propri della nostra condizione e del nostro lavoro, l’anima vorrebbe fuggire. Ci si volge a Dio, come il ferro attirato dalla forza della calamita. Si comincia ad amare Gesù in un modo più efficace, con un dolce palpito. […] È un modo nuovo di camminare sulla terra, un modo soprannaturale, divino, meraviglioso. Ricordando tanti scrittori castigliani del Cinquecento, forse anche noi vorremmo assaporarne l’esperienza: vivo perché non vivo, è Cristo che vive in me (cfr. Gal 2, 20)» .

Link alla fonte »