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Seminare speranza con il lavoro

Tratto da "Lavorare bene, lavorare per amore"- X

Autore: Javier López Díaz

Nella storia della Chiesa e dell’umanità, lo spirito che Dio ha fatto vedere a san Josemaría Escrivá nel 1928 ha in sé un insegnamento nuovo e antico come il Vangelo, con tutta la sua forza trasformatrice degli uomini e del mondo.

La santificazione del lavoro professionale è semente viva, capace di dare frutti di santità in un’immensa moltitudine di anime: «per la maggior parte degli uomini, la santità consiste nel santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro » . «Con questa frase espressiva – ha affermato il Prelato dell’Opus Dei nell’omelia del 7 ottobre 2002, il giorno dopo la canonizzazione di san Josemaría – il Fondatore dell’Opus Dei riassumeva il nucleo del messaggio che Dio gli aveva affidato per ricordarlo ai cristiani».

Il Seminatore divino ha sparso questo seme nella vita di migliaia di persone affinché il suo frutto cresca e si moltiplichi: «chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno». Riesaminare con calma ognuno di questi tre aspetti può costituire spesso un modo di dialogare con Dio nell’orazione. Sto santificando il mio lavoro? Mi sto santificando nel lavoro? In altre parole, mi vado trasformando in un altro Cristo attraverso la mia professione? Quali frutti di apostolato sto producendo con il mio lavoro?

Un figlio di Dio non deve temere di farsi queste domande sul significato ultimo della propria attività. Piuttosto deve temere di non farsele, perché correrebbe il rischio che il fluire dei suoi giorni non riuscisse a trovare il canale verso il vero fine, consumando le energie in attività dispersive, come tracce sterili.

Questi tre aspetti nei quali san Josemaría riassume lo spirito della santificazione del lavoro sono intrinsecamente uniti tra loro, come in una spiga di frumento lo sono la radice, lo stelo e il chicco di grano, che ne è il frutto.

Il primo – santificare il lavoro: fare santa l’attività di lavorare compiendola per amore a Dio, con la maggiore perfezione che ognuno può ottenere, per offrirla in unione con Cristo –, è quello che più è di base, una sorta di radice degli altri.

Il secondo aspetto – santificarsi nel lavoro – è, in qualche modo, conseguenza del precedente.

Chi fa in modo di santificare il lavoro necessariamente si santifica: vale a dire, permette che lo Spirito Santo lo santifichi, identificandolo sempre più a Cristo. Tuttavia, come in una pianta non basta annaffiare la radice, ma bisogna anche curare che lo stelo cresca dritto, e certe volte occorre mettere un sostegno – un tutore – perché il vento non lo spezzi, oppure anche proteggerlo dagli animali e dalle calamità…, così bisogna anche servirsi di molti mezzi per identificarsi con Cristo nel lavoro: orazione, sacramenti e mezzi di formazione, con i quali si vanno coltivando le virtù cristiane. Grazie alle virtù si fortifica anche la stessa radice e appare sempre più connaturale santificare il lavoro. Con il terzo aspetto – santificare con il lavoro – accade qualcosa di simile. Sicuramente si può considerare una conseguenza degli altri due perché, nel santificare il proprio lavoro e nell’identificarsi lì con Cristo, il cristiano necessariamente dà frutto – santifica gli altri con il propri lavoro –, secondo la parola del Signore: «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto». Questo non significa che un cristiano si può disinteressare di dare frutto, come se sorgesse dalla radice e dallo stelo senza che sia necessario darsi da fare personalmente.

Chi non si desse la pena di santificare gli altri con il proprio lavoro, preoccupandosi soltanto di santificare quello suo, in realtà non lo starebbe santificando. Sarebbe come l’albero di fico sterile, che tanto disgustò Gesù perché, pur avendo radici e foglie, non aveva alcun frutto.

Infatti, «un buon indice della rettitudine d’intenzione, con la quale dovete compiere il vostro lavoro professionale, è proprio il modo in cui utilizzate le relazioni sociali e di amicizia, che nascono durante l’attività professione, per avvicinare le anime a Dio».

Prendiamo ora in considerazione più dettagliatamente quest’ultimo aspetto della santificazione del lavoro, che in qualche modo fa conoscere anche gli altri due, come i frutti sono la dimostrazione che esiste la pianta e la radice. «Dai loro frutti li riconoscerete», dice il Signore.

Se il lavoro professionale viene preso in considerazione secondo una visione umana, sicuramente si penserà che uno si trova lì come risultato delle più diverse circostanze – capacità e preferenze, obblighi o casualità, ecc. – che gli hanno fatto compiere quella attività e non un’altra.

Un cristiano deve guardare le cose più in profondità e con un’altezza maggiore, con una visione soprannaturale che gli faccia scoprire che proprio lì c’è una chiamata personale di Dio alla santitàe all’apostolato.
Quella che sembra una situazione fortuita acquista allora un significato di missione e si comincia a stare in un modo nuovo nel medesimo lavoro che si è svolto fino a quel momento.
Certamente non come chi è capitato per caso in quel luogo, ma come chi vi è stato inviato da Cristo. «Io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Il posto di lavoro, l’ambiente professionale nel quale ognuno si trova, è il suo terreno di apostolato, la terra più idonea nella quale seminare e coltivare il buon seme di Cristo.
La promessa di Gesù non può deludere: quando si cerca l’unione con Lui nel proprio lavoro, si ha sempre un frutto apostolico.

Occorre, tuttavia, non lasciarsi sedurre dalle apparenze. Il Signore avverte anche che il Padre celeste pota ciò che già produce, «perché porti più frutto». Agisce in questo modo perché vuole benedire ancora di più i suoi figli. Li pota per migliorarli, anche se la potatura è dolorosa.

Spesso consiste in difficoltà che Egli permette per purificare l’anima, togliendo il soverchio. Certe volte, per esempio, scompare l’entusiasmo umano per il proprio lavoro, che allora si deve compiere contropelo, con un amore che non ha altra soddisfazione che quella di far piacere a Dio; altre volte si tratta di una seria difficoltà economica, che forse Dio permette perché noi continuiamo a mettere tutti i mezzi umani, ma con una maggiore fiducia filiale in Lui, come Gesù ci insegna , senza lasciarci prendere dalla tristezza e dall’angoscia del futuro. Altre volte ancora, infine, si tratta di un insuccesso professionale, di quelli che possono far crollare coloro che lavorano soltanto con mire umane e che, invece, mettono in Croce quelli che vogliono corredimere con Cristo. La potatura di solito comporta che i frutti ritardino, ma è garanzia che vi sarà “più frutto”.
In ogni caso, sarebbe un errore confondere questa situazione con quell’altra alla quale si riferisce ancora Gesù in una parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?”». È il caso di chi non dà frutti apostolici nel suo lavoro a causa della sua comodità e della sua poltroneria, dell’imborghesimento e del fatto che si preoccupa solamente o soprattutto di se stesso.

Allora l’assenza del frutto non è solo apparente. Non lo è perché non c’è generosità, né impegno, né sacrificio; alla fin fine, perché manca la buona volontà.
Cristo stesso ci insegna a distinguere le situazioni in base ai segni. «Dal fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina».
Coloro che il Signore pota sembra che non portino frutto, ma sono pieni di vita. Il loro amore a Dio mostra altri segni evidenti, come la delicatezza nel curare i tempi dell’orazione, la carità verso tutti, l’impegno perseverante nel mettere nell’apostolato tutti i mezzi umani e soprannaturali…:segni tanto inconfondibili come i teneri germogli del fico, messaggeri dei frutti che arriveranno a suo tempo. In realtà stanno santificando altre anime con la loro attività professionale perché «ogni lavoro che è orazione, è apostolato».

Il lavoro che si converte in orazione ottiene effettivamente da Dio una pioggia di grazie che fruttifica in molti cuori.
Gli altri, invece, non danno frutto né sono in procinto di darlo; però sono ancora vivi e, se vogliono, possono cambiare. Non mancheranno gli aiuti che Dio manderà loro, ascoltando le preghiere dei loro amici, come quelle del vignaiolo che intervenne a favore del fico: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai»289. È sempre possibile uscire da una situazione di sterilità apostolica in qualche modo volontaria. È sempre l’ora, con la grazia divina, di convertirsi e di dare molto frutto. «Che la tua vita non sia una vita sterile. – Sii utile. – Lascia traccia.

– Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore…». E solo allora si riempie di significato il lavoro professionale, diventa evidente l’attrattiva della sua bellezza e sorge un entusiasmo nuovo, fino allora sconosciuto. Un entusiasmo come quello di san Pietro dopo aver obbedito al comando di Gesù: «Prendi il largo!» , e aver ascoltato, dopo la pesca miracolosa, la promessa di un frutto di ben altro ordine e importanza: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».

Nella nostra vita si possono presentare le due situazioni precedenti, in alcuni momenti la prima, in altri la seconda. Esternamente forse sembreranno simili per il fatto che non si vedono i frutti apostolici del proprio lavoro professionale, ma non è difficile sapere se ciò è dovuto all’una o all’altra. Basta essere sinceri nell’orazione; rispondere con chiarezza alla seguente domanda: sto mettendo tutti i mezzi alla mia portata per santificare gli altri con il lavoro, o me ne disinteresso e mi accontento del poco, potendo in realtà fare molto di più? Voglio bene a quelli che lavorano con me? Cerco di servirli? E cercando sempre l’aiuto esigente della direzione spirituale.

Questo è il cammino della santità e della fecondità apostolica.

Trasformare la professione in mezzo di apostolato è la parte essenziale dello spirito di santificazione del lavoro ed è segno che effettivamente ci si sta santificando.
Santità e apostolato sono inseparabili, come l’amore a Dio e agli altri attraverso Dio.
«Devi comportarti come una brace ardente, che appicca fuoco ovunque si trovi; o, per lo meno, fa’ in modo di innalzare la temperatura spirituale di quanti ti stanno intorno, portandoli a vivere un’intensa vita cristiana». Il lavoro professionale è il luogo naturale nel quale ci troviamo, come la brace nel braciere. Lì debbono trovare adempimento le parole di san Josemaría, in modo che le persone che ci stanno intorno ricevano il calore della carità di Cristo.

Si tratta di dare un esempio di serenità, di sorridere, di saper ascoltare e comprendere, di mostrarsi pronti a servire.
Chiunque dovrebbe poter percepire accanto a noi l’influenza di chi innalza il tono dell’ambiente, perché – insieme con la competenza professionale – lo spirito di servizio, la lealtà, l’amabilità, la gioia e l’impegno di superare i propri difetti, non passino inavvertiti.

Tutto questo fa parte del prestigio professionale che debbono coltivare coloro che vogliono attrarre gli altri a Cristo. Il prestigio professionale di un cristiano non è dovuto al semplice compimento del lavoro in modo tecnicamente ineccepibile: è un prestigio umano, tessuto dalle virtù plasmate dalla carità.

Con questo prestigio, «il lavoro professionale – qualunque esso sia – diventa la lucerna che illumina i vostri amici e colleghi»294. Senza carità, invece, non può esserci
un prestigio professionale cristiano, almeno non quello che Dio chiede: l’«amo di pescatore d’uomini», strumento di apostolato. Senza carità non è possibile attrarre le anime a Dio, «perché Dio è amore». Vale la pena rimarcarlo: un buon professionista, efficace e competente, se non si sforza di vivere non la giustizia ma la carità, non avrà il prestigio professionale proprio di un figlio di Dio.

Il prestigio, comunque, non è un fine ma un mezzo: un mezzo per «avvicinare le anime a Dio con la parola conveniente […] mediante un apostolato che una volta ho chiamato di amicizia e di confidenza» . Ben sapendo che, insieme alla filiazione divina, abbiamo ricevuto con il Battesimo una partecipazione al sacerdozio di Cristo e, pertanto, il triplice ufficio di santificare, insegnare e guidare altri; abbiamo, dunque, titolo per entrare nella vita degli altri, per arrivare a quella relazione profonda di amicizia e di confidenza con tutti quelli che sia possibile nel vasto terreno delle relazioni professionali.

Questo terreno non si limita alle persone che lavorano nello stesso posto o che hanno un’età più o meno simile alla nostra, ma si estende a tutte quelle con le quali, in un modo o nell’altro, si può stabilire un contatto in occasione del lavoro. Ogni cristiano troverà l’occasione per stare con una data persona, per potergli parlare a quattr’occhi, favorendo il rapporto: un pranzetto, un’attività sportiva, quattro passi per strada. Sarà necessario dedicare del tempo agli altri, essere accessibile, sapendo trovare il momento opportuno. «Dobbiamo dare quello che riceviamo, insegnare ciò che impariamo, partecipare agli altri – senza montare in cattedra, con semplicità – la nostra conoscenza dell’amore di Cristo. Ciascuno di noi, nel realizzare il proprio lavoro, nell’esercitare la propria professione nella società, può e deve convertire la sua occupazione in un’attività di servizio».

Con il lavoro professionale i cristiani possono contribuire efficacemente a orientare l’intera società con lo spirito di Cristo. Il lavoro santificato è necessariamente santificatore della società, perché, «svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali».

In tal senso san Josemaría ha scritto in Forgia: «Impégnati affinché le istituzioni e le strutture umane, in cui lavori e ti muovi con pieno diritto di cittadinanza, si adeguino ai princìpi che reggono una concezione cristiana della vita. Così, non dubitarne, assicuri agli uomini i mezzi per vivere in modo adeguato alla loro dignità, e renderai possibile a molte anime di rispondere personalmente, con la grazia di Dio, alla vocazione cristiana».

Mettere in pratica seriamente le norme di morale professionale proprie di ogni lavoro, è una esigenza basilare e fondamentale in questa attività apostolica. Però, inoltre, bisogna aspirare a diffonderle, facendo il possibile perché altri le conoscano e le pratichino. Non si può avanzare la scusa che è poco ciò che uno può fare in un ambiente nel quale hanno messo radici costumi immorali. Allo stesso modo che tali costumi sono la conseguenza dell’accumulo di peccati personali, essi scompariranno soltanto come frutto dell’impegno nel mettere in pratica personalmente le virtù cristiane. Molte volte sarà necessario chiedere consiglio. Nell’orazione e nei sacramenti colui che lavora troverà la fortezza, quando occorre, per dimostrare con i fatti che ama la verità su tutte le cose.

«Da quando il 7 agosto 1931, durante la celebrazione della Santa Messa, risuonarono nella sua anima le parole di Gesù: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32), Josemaría Escrivá comprese più chiaramente che la missione dei battezzati consiste nell’elevare la Croce di Cristo su ogni realtà umana, e sentì nascere interiormente l’appassionante chiamata a evangelizzare tutti gli ambiti» . Questo ideale di orientare la società secondo lo spirito cristiano «non è un sogno inutile, e può diventare realtà». San Josemaría – affermava san Giovanni Paolo II il giorno della canonizzazione – «continua a ricordarvi la necessità di non lasciarvi intimorire dinanzi a una cultura materialistica, che minaccia di dissolvere l’identità più autentica dei discepoli di Cristo. Gli piaceva ripetere con vigore che la fede cristiana si oppone al conformismo e all’inerzia interiore».

Il Signore previene da un pericolo: dice che arriverà un tempo in cui «per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà». Noi cristiani, avvertiti dalle sue parole, invece di scoraggiarci per l’abbondanza del male – e anche per le miserie personali – reagiremo con umiltà e fiducia in Dio, ricorrendo all’intercessione di Santa Maria. «Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio».

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