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Libro della Vita - Capitolo 36

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 36

Prosegue nell’argomento iniziato e dice come si giunse alla conclusione della vertenza e si fondò il monastero del glorioso san Giuseppe, i grandi contrasti e le persecuzioni che ci furono contro le religiose, dopo la vestizione, le grandi tribolazioni e le tentazioni che ella soffrì e come da tutto il Signore la fece uscire vittoriosa, a sua lode e gloria.

1. Partita ormai da quella città, facevo la strada molto contenta, decisa a sopportare di buon animo tutto quel che al Signore piacesse. La notte stessa del mio ritorno giunse da Roma il dispaccio con il Breve che autorizzava la fondazione del monastero, tanto che io ne fui stupita, e altrettanto lo furono quelli che sapevano con quanta fretta mi avesse il Signore indotta alla partenza, quando conobbero la grande necessità che c’era di tale fondazione e la favorevole circostanza che egli mi aveva preparato, perché in città trovai il vescovo, il santo fra Pietro d’Alcántara e un gentiluomo gran servo di Dio, in casa del quale quest’ultimo aveva alloggio, essendo una persona in cui i servi di Dio trovavano appoggio e protezione.

2. Tutti e due finirono col far decidere il vescovo ad accogliere il monastero sotto la sua giurisdizione, il che non fu poca cosa, trattandosi di un monastero povero, ma egli era tanto ben disposto verso persone che vedeva risolute a servire il Signore, che subito prese a favorirci. Chi fece tutto, anzi, fu questo santo vecchio, prima approvando il progetto, poi dandosi da fare con gli uni e con gli altri affinché ci aiutassero. Se io non mi fossi trovata lì in tale circostanza – come ho già detto – non so proprio come si sarebbe potuto fare, perché quel sant’uomo rimase poco in città, credo che non furono neppure otto giorni, e quasi sempre molto infermo: di lì a poco, infatti, il Signore lo chiamò a sé. Sembrava che Sua Maestà lo avesse conservato in vita fino alla conclusione di questo affare, essendo molto tempo, non so se più di due anni, che stava assai male.

3. Su fece tutto in gran segreto, perché altrimenti non si sarebbe potuto far nulla, tenuto conto dell’ostilità della gente, come si vide in seguito. Intanto, il Signore permise che si ammalasse un mio cognato; poiché sua moglie era assente, aveva un così gran bisogno di assistenza che mi permisero di andare da lui. Questa circostanza servì a non far trapelare nulla, nonostante che qualcuno continuasse a nutrire sospetti. Tuttavia, nessuno ancora ci credeva. Fu davvero una cosa sorprendente che la sua malattia non durasse più del tempo che occorreva per la conclusione dell’affare; dopo, essendo necessario che egli stesse bene perché io restassi libera ed egli lasciasse sgombra la casa, il Signore gli diede così buona salute da riempirlo di meraviglia.

4. Ebbi molto da fare, oltre che per assistere il malato, per sbrigare, ora con l’uno, ora con l’altro, le pratiche dei permessi e sorvegliare gli operai affinché si sbrigassero ad adattare a monastero la casa, i cui lavori erano molto indietro. La mia compagna non era con me, perché ci parve più opportuno che se ne stesse lontana per meglio dissimulare la cosa. Io vedevo che tutto dipendeva dal far presto, per molte ragioni, una delle quali era il timore, che continuamente avevo, di sentirmi ordinare d’andarmene. Furono tante le mie tribolazioni da farmi pensare se non fosse questa la croce, benché, in fondo, mi sembrasse leggera di fronte a quella cui, come avevo udito dal Signore, dovevo sobbarcarmi.

5. Sistemata, infine, ogni cosa, piacque al Signore che il giorno di san Bartolomeo prendessero l’abito alcune religiose e si collocasse nella cappella il santissimo Sacramento, e così, con tutte le autorizzazioni e con piena validità, fu fondato il monastero del gloriosissimo nostro padre san Giuseppe, nell’anno 1562. Alla vestizione fui presente io con altre due monache della casa dell’Incarnazione, che per caso si trovavano fuori di lì. Poiché la casa ove fu eretto il monastero era quella in cui stava mio cognato, il quale, come ho detto, l’aveva comprata a nome suo, per dissimulare meglio la cosa, io vi stavo col dovuto permesso e non facevo nulla senza chiedere il parere dei dotti, per non allontanarmi di un punto dall’obbedienza. Essi, vedendo che la fondazione, per più motivi, sarebbe stata di gran vantaggio per tutto l’Ordine, anche se procedevo con grande segretezza e all’insaputa dei miei superiori, mi dicevano che potevo farlo; qualora, invece, mi avessero detto che in ciò era anche una minima imperfezione, avrei abbandonato, credo, non uno, ma mille monasteri. Su questo non c’è dubbio perché, sebbene desiderassi quella fondazione per meglio separarmi da tutto il resto e conformarmi alla mia vocazione religiosa con maggiore perfezione e in più stretta clausura, il mio desiderio era tale che, se avessi saputo che era a maggior servizio di Dio rinunziarvi, lo avrei fatto – come l’avevo già fatto la volta precedente – in tutta pace e tranquillità.

6. Mi parve, dunque, d’essere in paradiso, quando vidi che si collocava il santissimo Sacramento, che si erano trovate quattro orfane povere – giacché con dote non si prendevano – e gran serve di Dio (fin da principio, infatti, si cercò di ammettere nel monastero persone sul cui esempio si potesse fare assegnamento per realizzare il nostro intento di condurre una vita di grande perfezione e orazione), e che si era portata a termine un’opera che sapevo a servizio del Signore e di onore all’abito della sua gloriosa Madre: perché questi erano i miei desideri. Mi fu anche di grande consolazione aver fatto ciò che il Signore mi aveva tanto raccomandato e di aver creato in questa città una chiesa in più, intitolata al mio glorioso padre san Giuseppe che non ne aveva. Non già che credessi di averne alcun merito io; non l’ho mai creduto, né lo credo, convinta che ha fatto tutto il Signore. Quello che ci misi da parte mia era così pieno di imperfezioni che, piuttosto, ritengo si dovesse farmene una colpa, non un merito; tuttavia, mi rendeva felice costatare che Sua Maestà, pur essendo io tanto misera cosa, avesse voluto scegliermi come strumento per compiere un’opera così grande e ne ero tanto soddisfatta da sentirmi come fuori di me e immersa in una profonda orazione.

7. Finito tutto da circa tre o quattro ore, il demonio mi sconvolse con una battaglia spirituale che ora racconterò. Mi fece sorgere il dubbio che quanto avevo fatto potesse essere mal fatto, di aver mancato all’obbedienza nell’agire senza l’autorizzazione del provinciale (mi sembra che a quest’ultimo dovesse alquanto dispiacere il fatto che io avessi posto il monastero sotto la giurisdizione dell’Ordinario, senza avergliene prima parlato, benché d’altro canto, siccome non aveva voluto riconoscerlo e io rimanevo sottoposta a lui, non mi pareva che dovesse importargliene molto). Inoltre, il demonio mi faceva sorgere il dubbio che le monache potessero non essere contente di vivere in tanta austerità, che potesse mancar loro da mangiare, che potesse essere stato tutto una follia e m’induceva a chiedermi perché avevo voluto imbarcarmi in questa impresa, visto che avevo già un monastero in cui vivere. Tutti gli ordini del Signore, i molti consigli e le tante preghiere che duravano da più di due anni, tutto era cancellato dalla mia memoria, come se non fosse mai stato. Mi ricordavo solo delle mie opinioni; la fede e ogni altra virtù erano in me come sospese, fino a mancarmi la forza di farle operare e difendermi dagli assalti.

8. Il demonio mi insinuava, inoltre, che non potevo rinchiudermi in una casa così rigorosa, perché molto inferma. Come avrei potuto sopportare così dure penitenze, venendo da una casa così spaziosa e piacevole, dove mi ero trovata sempre tanto bene e avevo tante amiche? Chissà se avrei poi trovate simpatiche le nuove consorelle! Insomma, mi ero assunta obblighi gravosi che forse mi potevano essere causa di disperazione ed era probabilmente questo ciò a cui aspirava il demonio: farmi perdere la pace e la tranquillità, in modo che in tanto turbamento non avrei potuto darmi all’orazione e avrei perduto la mia anima. Cose di tal fatta mi faceva tutte insieme presenti il demonio, tanto che non mi era possibile pensare ad altro con l’aggiunta di tali angosce, tenebre e oscurità nell’anima, che non riesco a descriverle. Vedendomi in questo stato, andai a visitare il santissimo Sacramento, benché non riuscissi a raccomandarmi a Dio. Mi sembrava d’aver l’affanno, come chi sta in agonia. Né potevo osare di parlarne con qualcuno, perché non avevo ancora un confessore designato.

9. Oh, Dio mio, quanto è miserabile questa vita! Non vi è in essa gioia sicura, né cosa alcuna esente da mutamento. Era passato così poco tempo da quando mi sembrava che non avrei cambiato la mia gioia con alcun’altra della terra e ora la stessa causa di quella gioia mi tormentava a tal punto da non saper che fare di me. Oh, se considerassimo attentamente gli avvenimenti della nostra vita, ognuno vedrebbe per esperienza in quanto poco conto si debbano tenere i piaceri e i dispiaceri che essa procura! Questo, mi pare, fu certamente uno dei momenti più duri della mia vita. Sembrava che lo spirito presagisse quanto avrebbe sofferto, benché nessuna sofferenza sarebbe stata pari a questa, se fosse durata. Ma il Signore non permise che la sua povera serva soffrisse troppo e, avendomi sempre aiutato nelle tribolazioni, non mi abbandonò nemmeno in questa: mi diede un po’ di luce tanto da farmi scoprire la verità di vedere che tutto era opera del demonio, il quale voleva spaventarmi con menzogne. Allora cominciai a ricordarmi dei miei generosi propositi di servire il Signore e dei miei desideri di soffrire per lui. Pensai che se volevo realizzarli non dovevo andare in cerca di riposo e che, se avevo difficoltà, con esse mi procuravo meriti e se avevo contrarietà, accettandole per amor di Dio, mi sarebbero servite per purificarmi. Di che temevo, dunque? Poiché desideravo le sofferenze, quelle erano proprio buone, in quanto nelle più grandi contrarietà stava il maggior profitto. Perché, dunque, devo perdermi d’animo nel servizio di colui a cui tanto dovevo? Con queste ed altre considerazioni, facendomi una grande forza, promisi davanti al santissimo Sacramento di far quanto potevo per ottenere il permesso di venire in questa casa e d’impegnarmi ad osservarvi la clausura, non appena l’avessi potuto fare in buona coscienza.

10. Nell’istante stesso in cui feci questa promessa, il demonio fuggì e mi lasciò tranquilla e contenta, e tale sono sempre rimasta. Tutto ciò che in questa casa si osserva circa clausura, penitenza e il resto, mi è estremamente dolce e leggero. La gioia è così grande che, a volte, mi chiedo che cosa potrei scegliere di più piacevole in questo mondo. Non so se ciò influisca a farmi avere molto maggior salute di quanta ne abbia mai avuta, o se – essendo necessario e giusto ch’io faccia tutto quello che le altre fanno – il Signore voglia darmi la consolazione di poterlo fare, anche se con fatica; certo che tutte le persone che conoscono le mie infermità si meravigliano del fatto che io possa sopportare questa vita. Sia benedetto colui che concede ogni bene e per la cui potenza si può fare ogni cosa.

11. Uscii da quella lotta molto stanca, ma ridendomi del demonio che vidi chiaramente esserne l’autore. Credo che il Signore l’abbia permesso perché, non avendo io mai saputo che cosa fosse sentirsi scontenta d’essere monaca, nemmeno per un attimo, in più dio ventotto anni che lo sono, potessi conoscere la grande grazia che mi aveva fatto con la vocazione religiosa e il tormento da cui mi aveva liberato, e anche perché, se vedessi qualcuna stare in quell’angustia, non me ne meravigliassi, ma ne avessi pietà e potessi consolarla. Passata dunque questa burrasca, volevo prendermi dopo pranzo un po’ di riposo perché tutta quella notte non avevo quasi potuto chiudere occhio e molte altre ne avevo passate fra continue sofferenze e preoccupazioni, oltre alla grande stanchezza di tutti i giorni. Ma, essendosi saputo nel mio monastero e in città quanto si era fatto, si fece un gran parlare per i motivi che ho già detto e che sembravano ragionevoli. Subito la priora m’inviò l’ordine di ritornare là immediatamente. Io, ricevuto l’ordine, lasciai le mie monache in grande afflizione e partii subito. Sapevo bene di andare incontro a molte tribolazioni, ma siccome la fondazione era un fatto compiuto, me ne importava ben poco. Mi misi a pregare, supplicando il Signore di aiutarmi, e il mio padre san Giuseppe di ricondurmi nella sua casa. Offrii a Dio quello che avrei dovuto soffrire e partii assai contenta che mi si presentasse l’occasione di patire per lui e di poterlo servire. E così me ne andai, sicura che subito mi avrebbero gettata in prigione, il che mi avrebbe fatto molto piacere perché avrei potuto non parlare con nessuno e riposare un po’ in quella solitudine di cui avevo tanto bisogno: ero, infatti, molto stanca per aver trattato continuamente con la gente.

12. Quando, appena arrivata, esposi le mie ragioni alla priora, si calmò un poco; la comunità, poi, avvertì il provinciale rimettendo la causa nelle sue mani. Quando giunse, mi presentai a lui con vera, grande gioia di soffrire qualcosa per amore del Signore, perché nella presente circostanza sapevo di non aver offeso in nulla né Sua Maestà né l’Ordine. Anzi, quanto all’Ordine, avevo cercato con tutte le mie forze di favorirne lo sviluppo e per questo ero pronta a sacrificare anche la vita, perché il mio desiderio era quello di osservare la Regola con assoluta perfezione. Mi ricordai del giudizio di Cristo, di fronte al quale il mio mi parve una cosa da nulla. Mi accusai come se fossi molto colpevole e tale dovevo sembrare a chi non conosceva i motivi delle mie azioni. Dopo il severo rimprovero del provinciale, quantunque non fosse fatto con tutto quel rigore che avrebbe meritato la colpa e le accuse che molti gli presentavano a mio riguardo, io, decisa a non discolparmi, lo pregai, invece, di perdonarmi e di punirmi e di non essere irritato con me.

13. In alcune cose, certo, io vedevo che mi condannavano a torto, come, ad esempio, accusandomi di aver agito per esser tenuta in una certa considerazione, per farmi un nome e cose simili; ma in altre vedevo chiaramente che dicevano la verità: che ero, cioè, la peggiore di tutte, che, non avendo osservato le molte pratiche religiose di quella casa, non si capiva come pensassi di osservarle in un’altra dov’erano più rigorose, che scandalizzavo la gente e che volevo introdurre novità. Questo, però, non mi turbava né mi affliggeva minimamente, anche se dimostravo di soffrirne, affinché non sembrasse che tenevo in poco conto quanto mi dicevano. Infine il provinciale mi comandò di rendere conto del mio operato davanti a tutte, e dovetti farlo.

14. Siccome avevo la coscienza tranquilla e il Signore mi aiutava, lo feci in modo tale che né il provinciale né le monache lì presenti trovarono di che ammonirmi. Parlai poi da sola più chiaramente con il provinciale, che rimase molto soddisfatto e mi promise, non appena – affermatasi la fondazione – la città fosse ritornata tranquilla, di darmi il permesso di ritornare in quel monastero. Infatti, come ora dirò, la città era in gran subbuglio.

15. Dopo due o tre giorni si riunirono il governatore, alcuni consiglieri comunali e membri del capitolo. Tutti unanimemente dissero che in nessun modo si doveva permettere la fondazione di un monastero che era di evidente danno al bene pubblico, che bisognava togliere il santissimo Sacramento e che a nessun patto avrebbero tollerato che la cosa continuasse. Convocarono tutti gli Ordini affinché due teologi di ciascun Ordine dessero il loro parere. Alcuni tacquero, altri ci condannarono e infine conclusero che il monastero si dovesse subito sopprimere. Solo un Presentato dell’Ordine di san Domenico, sebbene fosse contrario non alla fondazione del monastero, ma alla povertà cui si conformava, disse che non era cosa da poter far sparire così, su due piedi, che bisognava rifletterci bene, perché tempo per questo ce n’era, che era un caso di competenza del vescovo, ed altre cose del genere che ottennero effetti molto positivi. Con la furia che avevano, fu una vera fortuna che non attuassero subito il loro disegno. Infine, così doveva essere, perché così voleva il Signore e ben poco potevano tutti contro la sua volontà. Adducevano le loro ragioni ed erano animati da giusto zelo; peraltro, pur senza offendere Dio, facevano soffrire me e le poche persone che favorivano il mio intento, le quali dovettero sostenere un’aspra persecuzione.

16. Era così grande il subbuglio della gente che in città non si parlava d’altro: tutti mi condannavano e ricorrevano chi al provinciale e chi al mio monastero. Di tutto quello che dicevano contro di me non avevo alcuna pena, come se non dicessero nulla; solo temevo che potesse essere soppresso il monastero. Questa preoccupazione mi affliggeva molto, come anche vedere che perdevano credito e soffrivano grandi tribolazioni le persone che mi aiutavano; per quanto dicevano di me mi pareva piuttosto di provarne gioia. E se la mia fede fosse stata un po’ più viva, non avrei avuto nessuna apprensione, ma il fatto è che l’essere alquanto scarsi in una virtù è sufficiente ad assopirle tutte. Pertanto fui in gran pena nei due giorni che in città si ebbero le adunanze che ho detto, e mentre ero così afflitta, il Signore mi disse: «Non sai che io sono onnipotente? Di che temi?», assicurandomi che il monastero non sarebbe stato soppresso. Queste parole mi confortarono molto. L’assemblea cittadina inviò una denuncia ufficiale al consiglio reale: venne ordine di aprire un’inchiesta per sapere com’era andata la cosa.

17. Ed ecco iniziarsi un lungo processo: la città mandò alcuni delegati alla Corte e dovevano andarci anche quelli da parte del monastero, ma non vi erano denari e io non sapevo come fare. Vi provvide il Signore perché il padre provinciale non mi impedì mai di occuparmene; essendo tanto amante di tutto ciò che mira alla perfezione morale, anche se non mi aiutava, non voleva ostacolarmi. Però, non mi permise di tornare al mio monastero, se non dopo aver visto come andava a finire la cosa. Quelle serve di Dio, intanto, se ne stavano sole, ma facevano più loro con le loro preghiere che non io con quanto andavo negoziando, benché fosse necessario occuparsi attivamente anche di questo. A volte, sembrava che tutto fosse finito, come, in particolare, il giorno prima della venuta del provinciale, in cui la priora mi ordinò di non occuparmene più: era la fine di tutto. Allora andai dal Signore e gli dissi: «Signore, questa casa non è mia, è stata fatta per voi. Ora che non vi è più nessuno ad occuparsene, ci pensi Vostra Maestà». Rimasi così fiduciosa e serena, come se tutti facessero trattative per me, e subito ebbi la sensazione che la cosa si sarebbe realizzata.

18. Un sacerdote, gran servo di Dio, che sempre mi aveva aiutato, amante di ogni perfezione, si recò alla Corte per occuparsi di questa faccenda e s’impegnò molto in essa. Anche quel santo gentiluomo di cui ho già parlato fece moltissimo nella presente circostanza, per favorirci in tutti i modi, e per questo motivo ebbe a soffrire molte tribolazioni e persecuzioni: io lo consideravo e lo considero ancora come un padre. Il Signore animava di tanto zelo quelli che ci aiutavano, che ognuno di essi si adoperava per noi come per una propria causa da cui dipendessero il proprio onore e la propria vita; non pensavano ad altro se non che si trattava di una cosa in cui sembrava loro di servire il Signore. Sua Maestà mostrò chiaramente di aiutare quell’ecclesiastico, maestro di teologia, di cui ho parlato, che era anch’egli fra coloro che mi aiutavano, mandato dal vescovo a rappresentarlo in una grande adunanza tenutasi a questo riguardo, in cui egli era solo contro tutti. Alla fine riuscì a calmare gli animi con il suggerire alcuni espedienti che contribuirono molto a tirarla per le lunghe; ma nessuno era in grado di evitare che di lì a poco non tornassero a giocarsi la vita, come si dice, pur di sopprimere il monastero. Questo servo di Dio di cui parlo, fu quello che aveva dato l’abito alle nuove religiose e collocato il santissimo Sacramento nella cappella: per questo si era visto oggetto di una grande persecuzione. La lotta durò quasi mezzo anno, ma raccontare minutamente le grandi sofferenze che si patirono sarebbe troppo lungo.

19. Mi meravigliavo nel vedere l’accanimento del demonio contro povere donnicciole e mi chiedevo come tutti i nostri avversari potessero credere che dodici monache e una priora – perché di più non possono essere – e di vita così austera, fossero di tanto danno alla città. Se ci fossero stati danni o errori, sarebbero ricaduti su loro stesse, ma asserire che potesse esserci un danno per la città non aveva alcun ragionevole fondamento, mentre essi ne trovavano tanti che ci avversavano in buona fede. Venivano a dirci che se la casa avesse avuto rendite, non ci avrebbero ostacolate e ci avrebbero lasciato proseguire. Io ero ormai così stanca, più che delle mie, delle sofferenze di tutti i miei sostenitori, che mi sembrava non sarebbe stato male avere una rendita finché tornasse la calma, e poi lasciarla. E credevo, a volte, nella mia miseria e imperfezione, che forse era la volontà del Signore; non avendo altra via d’uscita, ero ormai in quest’ordine di idee.

20. Si era già cominciato a trattarne quando, la sera precedente al giorno in cui si doveva definire l’accordo, mentre ero in orazione, il Signore mi disse di non farlo perché, se avessimo cominciato ad aver rendite, non ci avrebbero più permesso di lasciarle, e aggiunse altre cose. La stessa notte mi apparve il santo fra Pietro d’Alcántara, che era già morto, e prima di morire, avendo conosciuto i grandi contrasti e le grandi persecuzioni di cui eravamo oggetto, mi aveva scritto di rallegrarsi che la fondazione si facesse fra così grandi opposizioni perché, se il demonio la ostacolava tanto, era segno che il Signore sarebbe stato molto servito in questo monastero, e che in nessun modo dovevo acconsentire ad avere rendite. E su questo punto nella lettera era tornato due o tre volte concludendo che, se avessi agito così, tutto sarebbe andato secondo i miei desideri. Io l’avevo già visto altre due volte dopo la sua morte, circonfuso di gloria; pertanto, non ebbi paura, anzi mi rallegrai molto, perché appariva sempre come corpo glorificato, pieno di un tale splendore che il vederlo mi dava immensa gioia. Ricordo che la prima volta in cui lo vidi, parlandomi della sua grande felicità, fra l’altro mi disse che era stata una fortunata penitenza quella da lui fatta, per avergli meritato un premio così grande.

21. Poiché credo d’aver detto già qualcosa di questo, qui aggiungo solo che questa volta si mostrò severo e mi disse di non accettare assolutamente rendite; quindi, dopo avermi chiesto perché non volevo seguire il suo consiglio, subito disparve. Io ne rimasi spaventata e immediatamente, il giorno dopo, riferii quanto mi era accaduto a quel cavaliere che era la persona a cui ricorrevo in ogni mia necessità, come a colui che più aveva a cuore la cosa, aggiungendo che non dovevano più in alcun modo farsi trattative per una rendita, e che si mandasse pur avanti la causa. Egli, che a questo riguardo era ben più fermo di me, se ne rallegrò molto, e poi mi disse quanto a malincuore avesse aderito a quell’accomodamento.

22. In seguito si mosse di nuovo un’altra persona, gran serva di Dio e piena di grande zelo: poiché la cosa era avviata bene, consigliava di rimetterla nelle mani dei dotti. Ecco qui, per me, un’altra causa di grandi inquietudini, perché alcuni di coloro che mi aiutavano aderirono a tale proposta e questo fu un inganno del demonio, tra i peggiori di quanti ne avesse mai ordito. In tutto ebbi l’aiuto del Signore. Insomma, detto così, non si può far capire quello che soffrimmo in due anni, da quando si cominciò questa casa a quando tutto fu concluso. Ma questi ultimi sei mesi e i primi sei furono i più penosi.

23. Ora, quando in città cominciò a tornare un po’ di quiete, arrivò il padre Presentato domenicano che, pur da lontano, ci aiutava; il Signore lo fece venire nel momento più opportuno; ci fu, infatti, di grande aiuto e sembrò che Sua Maestà ne avesse disposto la venuta solo a questo fine, perché egli mi disse in seguito di essere venuto senza alcun motivo e di aver saputo solo per caso quanto accadeva. Si trattenne il tempo necessario e, prima di partire, si adoperò ad ottenere, per mezzo d’intermediari, che il nostro padre provinciale mi desse il permesso di venire in questa casa, con alcune mie compagne – sembrava impossibile che lo desse così presto – per recitare l’Ufficio divino e insegnarlo a quelle che vi erano. Il giorno che vi entrammo fu, per me, di immensa consolazione.

24. Mentre attendevo all’orazione in chiesa, prima di entrare nel monastero, ed ero quasi in rapimento, vidi Cristo che pareva mi accogliesse con grande amore e mi mettesse sul capo una corona, ringraziandomi di quanto avevo fatto per la Madre sua. Un’altra volta, mentre eravamo tutte nel coro in orazione, dopo la Compieta, vidi nostra Signora circonfusa di eccelsa gloria, in un bianco mantello, sotto il quale sembrava proteggerci tutte. Compresi allora quale alto grado di gloria il Signore avrebbe conferito alle religiose di questa casa.

25. Quando cominciammo a recitare l’Ufficio, il popolo dimostrò grande devozione per il nostro monastero. Si accettarono altre monache e il Signore cominciò a toccare il cuore di quelli che più ci avevano perseguitato, inducendoli a favorirci molto e a farci elemosine. Così venivano ad approvare quello che avevano tanto biasimato; a poco a poco rinunciarono a continuare la causa, dicendo di essere ormai convinti che la fondazione era opera di Dio perché, nonostante tanto contrasti, Sua Maestà aveva voluto che andasse avanti. Oggi non vi è nessuno a cui sembri che sarebbe stato meglio rinunziare a farla, e tutti hanno tanta cura di provvederci di elemosina che, pur non facendo noi la questua, né chiedendo nulla ad alcuno, il Signore li spinge a mandarcela e andiamo avanti senza che ci manchi il necessario; spero nella sua bontà che sia sempre così. Poiché le religiose son poche, se faranno il proprio dovere come, grazie a Sua Maestà, fanno ora, sono sicura che non mancherà mai loro il necessario e che non avranno bisogno di rendersi moleste con l’importunare la gente, avendo cura di esse il Signore, come ha fatto finora.

26. È per me una grande consolazione vedermi in questa casa con anime così distaccate, il cui unico intento è cercare di progredire nel servizio di Dio. La solitudine è la loro gioia e il solo pensiero che venga a visitarle qualcuno, anche dei parenti più stretti, che non sia loro d’aiuto ad accenderle maggiormente d’amore per il loro Sposo, è per esse un fastidio. Pertanto, in questa casa non viene nessuno che non tratti di Dio; in caso contrario, né resterebbero soddisfatti i visitatori né le monache che ricevono le visite. Esse non fanno altro che parlare di Dio e, pertanto, non intendono né sono intese se non da chi parla il loro stesso linguaggio. Noi, qui, osserviamo la Regola di nostra Signora del Carmine, che è adempiuta senza mitigazione, cioè come fu riordinata da fra Ugo, cardinale di Santa Sabina, ed emanata nel 1248 dal papa Innocenzo IV, l’anno quinto del suo pontificato.

27. Mi sembra che abbiano fruttato bene tutte le sofferenze patite. Ora, anche se la Regola comporta un certo rigore, perché non si mangia mai carne senza necessità, il digiuno è di otto mesi e si hanno altre restrizioni, come si può vedere nella stessa Regola primitiva, alle consorelle ciò appare sempre poco e osservano altre penitenze che ci sono sembrate necessarie per adempiere la regola stessa con maggior perfezione. Io spero nel Signore che l’opera incominciata progredisca molto, come egli stesso mi ha detto.

28. L’altra casa che quella mantellata di cui ho parlato volle fondare, ebbe anch’essa l’aiuto del Signore, ed è sorta in Alcalá; non sono mancate neppure a lei molte opposizioni né ha potuto evitare grandi sofferenze. So che in essa si osservano compiutamente le pratiche religiose, in conformità di questa nostra Regola primitiva. Piaccia al Signore che sia tutto a gloria e lode sua e della gloriosa Vergine Maria, di cui portiamo l’abito! Amen.

29. Forse la signoria vostra si sarà annoiato della mia lunga relazione su questo monastero, eppure è molto breve di fronte alle tante tribolazioni sofferte e alle meraviglie che il Signore vi ha operato, cose tutte delle quali esistono molti testimoni che potrebbero confermarle con giuramento. Pertanto supplico la signoria vostra, per amore di Dio, di strappare, nel caso lo creda opportuno, le altre parti di questo manoscritto, ma di conservare quanto riguarda il monastero, affidandolo, dopo la mia morte, alle consorelle che staranno qui. Le nuove venute ne saranno molto incoraggiate a servire Dio e a fare il possibile, non solo perché l’opera incominciata non vada in rovina, ma perché progredisca sempre più, vedendo quanto il Signore si è adoperato per il suo compimento, mediante uno strumento imperfetto e misero come sono io. E poiché il Signore ha voluto dimostrare così particolare interesse in favore di questa fondazione, credo che farà molto male e sarà severamente punita la religiosa che cominciasse a introdurre un rilassamento nella perfezione a cui egli stesso con il suo aiuto ha dato l’avvio, perché fosse agevole praticarla. Si può ben notare, infatti, quanto sia facile a tollerarsi, come si possa praticarla senza fatica e la grande opportunità che hanno le religiose che vogliono godere in solitudine del loro sposo Cristo Gesù, di stare sempre con lui. Questo, infatti, è ciò a cui devono sempre aspirare: star sole con lui solo. Pertanto, non saranno più di tredici, sapendo, per molti consigli avuti e avendolo costatato per esperienza, quanto convenga non oltrepassare questo numero per non perdere lo spirito a cui ci informiamo e vivere di elemosina senza chiederla. E si creda sempre di preferenza a chi, con innumerevoli sofferenze e con l’aiuto delle preghiere di molte persone, ha cercato la soluzione migliore. Sarà facile convincersi che è questo ciò che conviene, considerando la grande gioia e allegria, la scarsa fatica e la salute più prospera del solito di cui tutte godiamo da quando stiamo in questa casa. E chi giudicasse troppo duro questo genere di vita, ne incolpi il suo scarso spirito interiore, non la Regola che qui si osserva, giacché persone delicate e di pochissima salute, ma ricche di tale spirito, possono osservarla con grande facilità; e se ne vada in un altro monastero dove potrà salvarsi anche seguendo il proprio spirito.