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Libro delle Fondazioni - Capitoli 1, 2

Autore: Santa Teresa d'Avila

[PROLOGO]

1. So per esperienza, prescindendo da ciò che ne ho letto in molti libri, il grande vantaggio che deriva ad un’anima quando non si allontana dall’obbedienza. So che da ciò dipende il progresso nella virtù e l’acquisto graduale dell’umiltà; nell’obbedienza sta la sicurezza contro il timore di smarrire la strada del cielo, timore che è bene sia sentito da noi mortali finché dura questa vita; nell’obbedienza sta la pace così apprezzata dalle anime che desiderano piacere a Dio. Se infatti con tutta sincerità esse si sottopongono a questa santa obbedienza e vi assoggettano l’intelletto, non volendo ascoltare altro parere che quello del proprio confessore – e se sono anime di religiosi, del proprio superiore – il demonio cessa di assalirle procurando continue cause di agitazione perché sa ormai che ne uscirà con perdita anziché con guadagno. Parimenti cessano i nostri inquieti movimenti volti sempre a farci agire in base alla nostra volontà e ad asservire la ragione a ciò che è di nostra personale soddisfazione, perché ci ricordiamo di aver decisamente sottomesso il nostro volere a quello di Dio, assoggettandoci a chi ne fa le veci. Avendomi Sua Maestà, nella sua bontà, illuminata circa la conoscenza del gran tesoro che è racchiuso in questa preziosa virtù, ho cercato – sia pur debolmente e imperfettamente – di praticarla, ma spesso vi si oppone la consapevolezza della mia scarsa virtù, che sento inadeguata all’esecuzione di alcuni ordini. Provveda la divina Maestà a ciò che mi manca per assolvere il compito del presente lavoro!

2. Mentre ero in San Giuseppe di Avila, nel 1562, che è l’anno in cui si fondò tale monastero, ricevetti dal padre fra García di Toledo, domenicano, allora mio confessore, l’ordine di scrivere la storia di questa fondazione, con molte altre cose che vedrà chi leggerà il mio scritto, se verrà alla luce. Stando ora, nell’anno 1573, cioè undici anni più tardi, a Salamanca, il padre rettore della Compagnia, chiamato maestro Ripalda, dal quale ora mi confesso, dopo aver visto questo libro della prima fondazione, ritenne utile al servizio di nostro Signore che scrivessi la storia degli altri sette monasteri che, a partire da allora, per la bontà del Signore, sono stati fondati, insieme con quella dei primi conventi di padri scalzi della Regola primitiva. Pertanto mi diede l’ordine di farlo. Tale obbedienza mi sembrava impossibile, a causa delle molte incombenze, sia di corrispondenza, sia di altre occupazioni a cui dovevo necessariamente attendere, essendomi state imposte dai superiori. Alquanto angustiata per la mia scarsa capacità e malferma salute, perché anche senza questo sovraccarico, spesso la mia misera natura mi rendeva insostenibile il lavoro, mentre mi raccomandavo a Dio, il Signore mi disse: «Figlia, l’obbedienza dà forza».

3. Piaccia a Sua Maestà che sia così e mi dia grazia di riuscire a raccontare, per la sua gloria, i doni da lui elargiti al nostro Ordine in queste fondazioni. Si può essere certi che lo farò con estrema sincerità, senza alcuna esagerazione, per quanto potrò rendermene conto, in modo del tutto conforme a quel che è avvenuto. Se in cose di scarsa importanza non direi una menzogna per nulla al mondo, molto più me ne farei scrupolo in questo scritto destinato a glorificare Dio: mi sembrerebbe non solo una perdita di tempo, ma un servirmi delle cose sante per ingannare la gente, ragion per cui Dio, anziché esserne lodato, ne rimarrebbe offeso. Sarebbe un gran tradimento! Sua Maestà non voglia ritirare da me la sua mano, perché io non abbia a commetterlo! Tratterò di ogni fondazione singolarmente e cercherò di essere breve, se saprò farlo, perché il mio stile è talmente pesante che, pur con la migliore buona volontà, temo di non riuscire a evitare di stancare gli altri e me stessa. Ma il grande affetto che hanno per me le mie figlie, alle quali dev’essere rimesso questo scritto dopo la mia morte, glielo renderà sopportabile.

4. Piaccia a nostro Signore che, non cercando io mai in nulla il mio vantaggio personale – del resto non avrei motivo di farlo –, ma guardando solo alla sua lode e alla sua gloria – infatti vi si troveranno molte cose che saranno motivo per elargirgliele –, nessuno di coloro che lo leggeranno abbia minimamente l’idea di attribuirmi qualche merito: sarebbe andare contro la verità. Si preghi piuttosto Sua Maestà di perdonarmi il cattivo uso che ho fatto di tante grazie. Le mie figlie, a causa di ciò, hanno ben più ragione di lamentarsi di me che d’essermi grate per l’opera compiuta. Rendiamo tutte, figlie mie, grazie alla bontà di Dio per i molti doni di cui ci ha favorito. In nome del suo amore chiedo a chi leggerà questo scritto un’Ave Maria, affinché mi sia d’aiuto a uscire dal purgatorio e giungere a vedere Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

5. A causa della mia poca memoria credo che ometterò molte cose importantissime, mentre ne dirò altre che avrei potuto tralasciare. In conclusione, il mio scritto risentirà del mio scarso ingegno, della mia ignoranza e anche del poco tempo di cui dispongo per attendervi. Mi è stato ordinato, inoltre, di trattare, qualora se ne presenti l’opportunità, alcune cose circa l’orazione e di segnalare gli errori che potrebbero arrestare il progresso delle anime dedite ad essa.

6. In tutto mi sottometto a ciò che insegna la santa romana Chiesa nostra madre, e voglio, sorelle e figlie mie, che tale scritto non sia rimesso nelle vostre mani prima che lo vedano persone dotte e spirituali. Comincio nel nome del Signore, affidandomi all’aiuto della sua gloriosa Madre, di cui porto l’abito, pur essendone indegna, e del mio glorioso padre e protettore san Giuseppe, che mi ha sempre assistita con la sua intercessione e nella cui casa mi trovo, poiché questo monastero di carmelitane scalze, è dedicato a lui.

CAPITOLO 1

Racconta come si cominciò a trattare di questa ed altre fondazioni.

1. Dopo la fondazione del monastero di San Giuseppe di Avila, rimasi in esso cinque anni che – a quanto ora ritengo – saranno forse stati i più tranquilli della mia vita, quelli di cui la mia anima rimpiange spesso profondamente la pace e la quiete. In quel tempo entrarono nel monastero alcune pie ragazze molto giovani, che il mondo – a quel che sembrava, stando ai segni del loro sfoggio ed eleganza – teneva già per sue. Il Signore, strappandole sollecitamente a quelle vanità, le condusse alla sua casa, arricchendole di tanta perfezione da restarne io profondamente confusa. E così arrivammo al numero di tredici, cioè quello che si era stabilito di non oltrepassare.

2. Ero felice di trovarmi fra anime così sante e pure, la cui unica preoccupazione era servire e lodare nostro Signore. Sua Maestà ci mandava lì il necessario senza che lo chiedessimo, e quando ci veniva a mancare, il che accadde ben poche volte, la gioia di tali anime era ancora più grande. Lodavo il Signore alla vista di tante eccelse virtù, soprattutto ammirata nel considerare la noncuranza di queste consorelle per tutto ciò che non fosse il servirlo. Pur stando lì come priora, non ricordo di essermi mai preoccupata del vitto; ritenevo per certo che il Signore non avrebbe deluso quelle anime, di null’altro preoccupate se non di come piacergli. E se, talvolta, non c’era il cibo per tutte, quando dicevo che ciò di cui disponevamo doveva darsi alle più bisognose, ognuna riteneva di non essere ella tale, e così il cibo durava fino a quando Dio non lo mandava per tutte.

3. Quanto alla virtù dell’obbedienza (di cui sono molto rispettosa, sebbene non sapessi praticarla fino a quando queste serve di Dio non m’insegnarono a conoscerla), se ne avessi la capacità, potrei dire molte cose ad essa pertinenti che lì vidi. Me ne viene ora in mente una, ed è che, mentre un giorno stavamo in refettorio, ci furono date certe porzioni di cetrioli. A me toccò un cetriolo molto piccolo e internamente guasto. Come se nulla fosse, chiamai una consorella tra le più dotate d’ingegno e di buon senso ch’erano lì, per mettere alla prova la sua obbedienza, e le dissi di andare a piantare quel cetriolo in un nostro piccolo orticello. Mi chiese se doveva piantarlo diritto o disteso; le risposi di metterlo disteso. Ella andò e lo piantò, senza che le passasse per la mente che si sarebbe certamente seccato: il rispetto dell’obbedienza le accecò la ragione naturale, facendole credere che ciò avrebbe avuto sicuramente esito felice.

4. Mi accadeva qualche volta di affidare a una sola consorella sei o sette incombenze fra loro incompatibili e questa le accettava in silenzio, ritenendo possibile assolverle tutte. Avevamo un pozzo d’acqua assai cattiva, a giudizio di quelli che ne fecero la prova; sembrava impossibile renderla corrente, a causa della profondità del pozzo. Gli operai che avevo chiamato a questo scopo si ridevano di me, ritenendo che volessi buttar via il denaro inutilmente. Richiesi le consorelle del loro parere. Una disse: «Facciamolo; nostro Signore deve pur provvederci di persone che ci portino acqua e fornirci di che mantenerle; è certo più economico per Sua Maestà darci lui acqua in casa; pertanto, non tralascerà di farlo». Io, considerando la grande fede e decisione delle sue parole, mi ritenni sicura del risultato e, contro la volontà del fontaniere – che s’intendeva di acqua –, feci eseguire il lavoro. Piacque al Signore che tirassimo fuori da lì un getto d’acqua potabile largamente sufficiente per noi, e lo abbiamo tuttora.

5. Non lo racconto come un miracolo perché avrei da raccontarne molti altri, ma per la fede che avevano queste sorelle, essendo tutto avvenuto proprio come ho detto. Del resto, il mio intento principale non è lodare le monache di questi monasteri, che, per la bontà del Signore, si comportano tutte così. Di queste, come di altre cose, sarebbe troppo lungo scrivere, anche se non inutile, perché talvolta quelle che vengono dopo sono incitate ad imitare le consorelle. Se al Signore piacerà che queste cose si sappiano, i prelati potranno ordinare alle priore di scriverle.

6. Una così miserabile creatura, dunque, se ne stava tra queste anime angeliche: mi apparivano proprio tali, perché non mi nascondevano nessun difetto, per quanto intimo fosse; le grazie, gli ardenti desideri e il distacco che il Signore dava loro erano grandissimi; la loro consolazione era la solitudine, tanto che mi assicuravano di non stancarsene mai e di provare tormento per le visite, anche dei propri fratelli. Quella che aveva più tempo di starsene in un romitorio si riteneva più felice. Considerando il grande merito di queste anime e il coraggio, non certo femminile, che Dio concedeva loro per patire e servirlo, molte volte mi sembrava che le ricchezze di cui le favoriva il Signore dovessero avere qualche gran finalità. Non già che mi passasse per la mente ciò che poi si è fatto (perché allora sembrava cosa impossibile, non essendovi neppure un principio che potesse darmene un’idea), sebbene, man mano che il tempo passava, fossero molto aumentati i miei desideri di contribuire al bene di qualche anima, e molte volte mi sembrasse di essere come chi ha un grande tesoro da parte e desidera che tutti ne godano, ma si sente le mani legate per distribuirlo. Proprio così mi pareva che fosse legata la mia anima, poiché le grazie che in quegli anni il Signore mi concedeva erano molto grandi e tutto mi sembrava male impiegato in me. Servivo il Signore con le mie povere preghiere; mi adoperavo continuamente perché le consorelle facessero lo stesso e amassero il bene delle anime e lo sviluppo della Chiesa. Chi trattava con esse ne rimaneva sempre edificato e in ciò si appagavano i miei grandi desideri.

7. Dopo quattro anni – mi sembra, anzi, un po’ di più – venne a farmi visita un frate francescano, il cui nome era Alonso Maldonado, gran servo di Dio, che aveva i miei stessi desideri circa il bene delle anime e poteva metterli in pratica, cosa che gli invidiavo molto. Era arrivato recentemente dalle Indie. Cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che lì si perdevano per mancanza di istruzione religiosa, ci fece una predica con un’esortazione che ci animava alla penitenza, e poi se ne andò. Rimasi così afflitta per la perdita di tante anime da sentirmi fuori di me. Me ne andai, sciogliendomi in lacrime, in un romitorio: invocavo nostro Signore supplicandolo di darmi il mezzo per poter far qualcosa per guadagnare anime al suo servizio, poiché tante gliene portava via il demonio, e concedermi di operare un po’ di bene con la preghiera, visto che io non sapevo far altro. Invidiavo molto coloro che per amore di nostro Signore potevano dedicarsi alle missioni, anche a costo di affrontare mille morti: mi accade infatti, quando leggiamo nelle vite dei santi che operarono conversioni, di sentire ben più devozione, commozione e invidia per questo, che per tutti i martìri da essi patiti, essendo tale la vocazione che il Signore mi ha dato. Mi sembra infatti che egli ci apprezzi di più se, mediante la sua misericordia, riusciamo a guadagnargli un’anima con i nostri sforzi e con la nostra preghiera, che non per quanti altri servizi possiamo rendergli.

8. Mentre ero in questa grandissima pena, una notte, stando in orazione, mi si presentò il Signore nella maniera solita e, mostrandomi grande amore, quasi a volermi consolare, mi disse: «Aspetta un poco, figlia, e vedrai grandi cose». Tali parole restarono così impresse nel mio cuore che non potevo dimenticarle. Quantunque non riuscissi a coglierne il significato – per molto che ci pensassi – e non scorgessi la via o il cammino per far qualche supposizione, rimasi assai consolata e con assoluta certezza che tali parole si sarebbero avverate, ma in che modo non riuscii mai a immaginarlo. Così trascorse, mi pare un altro mezzo anno, dopo il quale avvenne ciò che ora dirò.

CAPITOLO 2

Come il nostro padre generale venne ad Avila e quali furono le conseguenze della sua visita.

1. I nostri padri generali risiedono sempre a Roma. Nessuno di loro era mai venuto in Spagna e sembrava impossibile che venissero proprio allora. Ma, poiché di fronte alla volontà del Signore non c’è nulla d’impossibile, Sua Maestà provvide all’attuazione di quello che non era mai accaduto. Quando io lo seppi, mi parve di provarne dispiacere perché, come già si è detto circa la fondazione di San Giuseppe, tale monastero non era soggetto ai religiosi dell’Ordine, per la ragione lì esposta. Temetti due cose: la prima che egli s’irritasse con me, e a ragione, non sapendo come si erano svolti i fatti; la seconda, che mi ordinasse di tornare al monastero dell’Incarnazione, dove si osserva la Regola mitigata, il che mi avrebbe fatto piombare nella desolazione, per molti motivi che non è necessario specificare. Bastava questo: che là io non avrei potuto osservare il rigore della Regola primitiva, senza dire che le religiose erano più di centocinquanta, mentre dove sono poche c’è sempre più concordia e tranquillità. Ma il Signore aggiustò le cose assai meglio di quanto non immaginassi, perché il generale è un così devoto servo suo e così dotto e prudente che riconobbe la bontà dell’opera e, per il resto, non mi mostrò alcun dissenso. Si chiama fra Giovanni Battista Rossi di Ravenna ed è una persona che, ben a ragione, gode di grande considerazione nell’Ordine.

2. Quando dunque giunse ad Avila, procurai che venisse a San Giuseppe, e il vescovo ritenne giusto che gli si facesse quell’accoglienza che si sarebbe fatta a lui stesso. Lo informai di ogni cosa con assoluta sincerità e franchezza, essendo nella mia indole trattare così con i superiori – qualunque conseguenza possa venirmene, perché adempiono le veci di Dio – e lo stesso faccio con i confessori. Mi sembra che, se mi comportassi altrimenti, la mia anima non potrebbe sentirsi sicura. Gli resi conto pertanto dei miei sentimenti e di quasi tutta la mia vita, benché assai spregevole. Egli mi consolò molto e mi assicurò che non mi avrebbe ordinato di andar via da lì.

3. Si rallegrava di vedere il nostro modo di vivere, che gli sembrava un’immagine, anche se imperfetta, dei primi tempi del nostro Ordine, e di costatare come si osservava in tutto il suo rigore la Regola primitiva che non veniva seguita allora in nessun monastero dell’Ordine, ov’era in vigore quella mitigata. Desideroso com’era che questo principio di riforma progredisse, mi dette le più ampie facoltà per fondare altri monasteri, con censure contro i Provinciali che vi si opponessero. Io non gliele avevo chieste, ma egli aveva capito, dal mio modo di procedere nell’orazione, il mio ardente desiderio di contribuire ad avvicinare maggiormente qualche anima a Dio.

4. Non ero io, ripeto, a cercare di aprirmi tali vie; anzi, il farlo mi sarebbe sembrato una follia, perché mi rendevo ben conto che una donnetta così priva di autorità come me non avrebbe potuto concludere nulla, ma quando l’anima è presa da questi desideri non è in suo potere respingerli. L’ardore di piacere a Dio e la fede rendono possibile ciò che a rigor di logica non lo è. Costatato pertanto il vivo desiderio del nostro reverendissimo padre generale circa la fondazione di altri monasteri, mi parve di vederli già costruiti. Ricordando le parole che nostro Signore mi aveva detto, cominciavo a scorgere qualcosa di ciò che prima mi restava oscuro. Soffrii molto quando vidi il nostro padre generale far ritorno a Roma: mi ero molto affezionata a lui e mi sembrava di restare totalmente priva di appoggio. Egli, nei miei riguardi, era molto affettuoso e pieno di benevolenza: tutte le volte che poteva sottrarsi alle sue occupazioni veniva al monastero per trattare di cose spirituali, e lo faceva come chi è favorito dal Signore di insigni grazie: pertanto ascoltarlo era motivo di gioia. Ancor prima che partisse, il vescovo, don Alvaro de Mendoza, molto propenso ad aiutare coloro che procurano di servire Dio con maggior perfezione, si adoperò perché gli desse l’autorizzazione di fondare nella sua diocesi alcuni conventi di frati scalzi della Regola primitiva, preghiera che gli fu rivolta anche da altre persone. Egli avrebbe voluto acconsentire, ma trovò opposizione nell’Ordine e, per non turbare la provincia, lasciò allora la cosa in sospeso.

5. Trascorsi alcuni giorni considerando quanto sarebbe stato necessario, se si fondavano monasteri di monache, che vi fossero anche frati della stessa Regola. Vedendo come in questa provincia ne esistessero ben pochi, che per giunta mi sembravano sul punto di estinguersi, raccomandata vivamente la cosa a nostro Signore, scrissi al nostro padre generale una lettera, rivolgendogli come meglio potei tale supplica. Gli esposi le ragioni per cui ciò sarebbe riuscito a gran servizio di Dio, e come gli ostacoli che potevano incontrarsi non bastavano a giustificare l’abbandono di un’opera così meritoria; gli prospettai anche il servizio che avrebbe reso a Nostra Signora, di cui era molto devoto. Fu la Vergine, indubbiamente, ad occuparsi della cosa, perché il padre generale, avuta la mia lettera mentre era a Valenza, da lì, come quegli a cui stava molto a cuore la maggior perfezione dell’Ordine, mi inviò l’autorizzazione di fondare due conventi. Per evitare l’insorgere di opposizioni, ne rimise il consenso al provinciale in carica e a quello precedente, cosa che era molto difficile ad ottenersi. Ma, siccome si era raggiunto il più, speravo che il Signore avrebbe fatto il resto. E fu così perché, grazie all’appoggio del vescovo, che aveva preso a cuore questa cosa come sua, i due provinciali diedero entrambi il loro consenso.

6. Se ero dunque ormai riconfortata dalla concessione delle autorizzazioni, vedevo però crescere le mie preoccupazioni non essendoci, a mia conoscenza, alcun frate nella provincia capace di realizzarle, né alcun secolare che volesse dar principio a tale opera. Non facevo che supplicare nostro Signore di suscitarne almeno qualcuno. Non avevo nemmeno casa né mezzi per procurarmela. Ecco qui, dunque, una povera monaca scalza, senza aiuti da nessuno, tranne che dal Signore, carica di autorizzazioni e di buoni desideri, ma impossibilitata ad attuarli. Il coraggio, però, non mi veniva meno: speravo sempre che il Signore, come aveva già dato una cosa, avrebbe dato anche il resto. Ormai tutto mi sembrava molto fattibile, pertanto mi misi all’opera.

7. Oh, grandezza di Dio! Come mostrate la vostra potenza nel concedere questa audacia a una formica! E come, mio Signore, non dipende da voi se coloro che vi amano non compiono grandi opere, ma dalla loro codardia e pusillanimità! Non prendiamo mai una ferma decisione, pieni sempre, come siamo, di mille timori e prudenze umane, e voi, mio Dio, pertanto, non operate le vostre meraviglie e grandezze. Chi più di voi sarebbe amante di dare, se trovasse a chi dare, o di ricevere servizi a proprie spese? Piaccia alla Maestà Vostra che io ve ne abbia reso qualcuno e non debba esservi ancor più debitrice per il molto che ho ricevuto! Amen.