Oriente e occidente di fronte al mistero dello Spirito Santo
Quarta predica di Quaresima
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
Oggi mediteremo sulla comune fede dell’Oriente e dell’Occidente nello Spirito Santo e cercheremo di farlo “nello Spirito”, come in sua presenza, sapendo, come dice la Scrittura, che “la nostra parola non è ancora sulla lingua, ed egli già la conosce tutta” (cf. Salmo 139, 4).
1. Verso un accordo sul Filioque
Per secoli, la dottrina della processione dello Spirito Santo in seno alla Trinità è stato il punto di maggior attrito e accuse reciproche tra Oriente e Occidente, a causa del famoso “Filioque”. Cerco di ricostruire lo stato della questione, per valutare meglio la grazia che Dio ci sta facendo di una intesa anche su questo spinoso problema.
La fede della Chiesa nello Spirito Santo fu definita, come si sa, nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381 con le seguenti parole: “…e (crediamo) nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti” . A guardare bene, questa formula contiene la risposta alle due fondamentali domande circa lo Spirito Santo. Alla domanda “chi è lo Spirito Santo?”, si risponde che è “Signore” (cioè, appartiene alla sfera del Creatore, non delle creature), che procede dal Padre ed è, nell’adorazione, uguale al Padre e al Figlio; alla domanda “che cosa fa lo Spirito Santo?”, si risponde che egli “dà la vita” (ciò che riassume tutta l’azione santificatrice, interiore e rinnovatrice dello Spirito) e che “ha parlato per mezzo dei profeti” (ciò che riassume l’azione carismatica dello Spirito Santo).
Nonostante questi elementi di grande valore, bisogna dire, tuttavia, che l’articolo riflette uno stadio ancora provvisorio, se non della fede, almeno della terminologia circa lo Spirito Santo. La lacuna più evidente è che in essa non si attribuisce ancora esplicitamente allo Spirito Santo il titolo di “Dio”. Il primo a lamentare questa reticenza fu san Gregorio Nazianzeno che per conto suo aveva rotto tutti gli indugi, scrivendo: “ Ebbene, lo Spirito è Dio? Certamente! Allora è consustanziale (homoùsion)? Certo, se è vero che è Dio” . Questa lacuna fu colmata, di fatto, nella pratica della Chiesa, la quale, superati i motivi contingenti che l’avevano fino allora trattenuta, non esitò ad attribuire allo Spirito il titolo di “Dio” e a definirlo “consustanziale” con il Padre e il Figlio.
Quella segnalata non era l’unica “lacuna”. Anche dal punto di vista della storia della salvezza, doveva apparire ben presto strano che l’unica opera attribuita allo Spirito fosse quella di aver “parlato per mezzo dei profeti”, tacendo tutte le altre sue opere e soprattutto la sua attività nel Nuovo Testamento, nella vita di Gesù. Anche in questo caso, il completamento della formula dommatica avvenne spontaneamente nella vita della Chiesa, come appare chiaro da questa epiclesi della liturgia detta di san Giacomo, dove viene attribuito allo Spirito anche il titolo di consustanziale (in corsivo le frasi desunte dal simbolo):
“Manda…il tuo santissimo Spirito, Signore e vivificatore, che siede con te, Dio e Padre, e con il tuo Figlio unigenito; che regna, consustanziale e coeterno. Egli ha parlato nella Legge, nei Profeti e nel Nuovo Testamento; è disceso in forma di colomba sul nostro Signore Gesù Cristo nel fiume Giordano, riposando su di lui, ed è disceso sui santi apostoli…il giorno della santa Pentecoste” .
Un altro punto, il più importante, su cui la formula conciliare non diceva nulla, era il rapporto tra lo Spirito Santo e il Figlio e, di conseguenza, tra cristologia e pneumatologia. L’unico accenno in questo senso consisteva nella frase “incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine” che probabilmente si trovava già nel simbolo di fede che il concilio di Costantinopoli adottò come base del suo credo.
Su questo punto l’integrazione del simbolo avvenne in maniera meno univoca e pacifica. Alcuni Padri greci espressero il rapporto eterno tra il Figlio e lo Spirito Santo, dicendo che lo Spirito Santo procede dal Padre “attraverso il Figlio”, che è “immagine del Figlio” , che “procede dal Padre e riceve dal Figlio”, che è il “raggio” che si diffonde dal sole (il Padre) attraverso il suo splendore (il Figlio), il rivo che viene dalla sorgente (il Padre) attraverso il fiume (il Figlio).
Quando la discussione sullo Spirito Santo passò al mondo latino, per esprimere questo rapporto si coniò la frase secondo cui lo Spirito Santo procede “dal Padre e dal Figlio”. Le parole “e dal Figlio” in latino suonano Filioque, e da qui il senso di cui si è sovraccaricata questa parola nelle dispute tra oriente e occidente e le conclusioni manifestamente esagerate che, a volte, se ne sono tratte.
Chi ha formulato per primo l’idea che lo Spirito Santo procede “dal Padre e dal Figlio” è stato sant’Ambrogio . Egli non è influenzato da Tertulliano (che non conosce e non cita mai), ma dalle espressioni appena ricordate che leggeva nelle sue abituali fonti greche: san Basilio e più ancora sant’Atanasio e Didimo Alessandrino. Tutti quei modi di esprimersi mettevano in luce un certo rapporto, per quanto non chiarito e misterioso, esistente tra il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro comune origine dal Padre. Se “attraverso il Figlio” vuol dire qualcosa, questo “qualcosa” è ciò che Ambrogio, ignaro della sottile distinzione che esiste in greco tra “provenire” (ekporeuesthai) e “procedere” (proienai), ha inteso esprimere con l’espressione “e dal Figlio”.
Sant’Agostino ha fornito all’espressione “dal Padre e dal Figlio” (in lui non c’è ancora l’espressione letterale Filioque) la giustificazione teologica che ha caratterizzato, in seguito, tutta la pneumatologia latina. Egli usa espressioni assai sfumate e certamente non colloca Padre e Figlio sulla stessa linea, nei confronti dello Spirito Santo, come appare dalla ben nota affermazione: “Lo Spirito Santo primariamente procede dal Padre (de Patre principaliter) e, per il dono che il Padre ne fa al Figlio, senza alcun intervallo di tempo, da entrambi allo stesso tempo” .
Questa dottrina, oltre che da tanti passi del Nuovo Testamento (“Tutto ciò che il Padre possiede è mio”, “Egli (il Paraclito) prenderà del mio”), era esigita dalla sua concezione dei rapporti trinitari come rapporti basati sull’amore. Essa permetteva anche di risolvere una obiezione rimasta sempre senza risposta, a parte il ricorso (ma solo in questo caso) al principio dell’apofatismo: che cosa il Padre non aveva ancora interamente espresso di se stesso nella generazione del Figlio, da giustificare una seconda operazione trinitaria? Che cosa distingue la processione dello Spirito Santo dalla generazione del Verbo?
Chi ha coniato l’espressione letterale Filioque per indicare la processione “dal Padre e dal Figlio”, è stato Fulgenzo di Ruspe che, anche in altri casi, ha irrigidito formule precedenti, ancora elastiche, della teologia latina . Egli tace la precisazione di Agostino, secondo cui lo Spirito Santo procede “principalmente” dal Padre, e insiste invece nel dire che “procede dal Figlio come (sicut) procede dal Padre”, “interamente (totus) dal Padre e interamente dal Figlio”, livellando così le due relazioni di origine . È in questa versione indifferenziata che la dottrina della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio entrerà nelle definizioni ecclesiali, a partire dal III concilio di Toledo del 589 .
Finché rimase a questo livello, la cosa non destò proteste da parte degli orientali. Nell’anno 809, si tenne però ad Aquisgrana, per volere di Carlo Magno, un sinodo per patrocinare l’introduzione del Filioque nel simbolo Niceno – Costantinopolitano che si cominciava, in alcune chiese, a cantare nella Messa. L’imperatore, più che da personali convinzioni teologiche, era mosso dal desiderio di dare una giustificazione anche dottrinale alla sua politica di emancipazione dall’impero d’Oriente.
Al termine del concilio una delegazione dell’imperatore si recò a Roma dal papa Leone III per guadagnarlo alla causa dell’imperatore. Pur, tuttavia, condividendo in pieno la dottrina del Filioque, il papa riteneva inopportuna la sua inserzione nel simbolo e mantenne con fermezza la sua decisione . In ciò egli seguiva la stessa linea di condotta seguita nella Chiesa greca, dove si erano avuti, come abbiamo visto, importanti integrazioni e approfondimenti dell’articolo sullo Spirito Santo, senza dovere, per questo, cambiare il testo del simbolo. Di fronte, però, a una nuova pressione dell’imperatore Enrico II di Germania, nel 1014, il papa Benedetto VIII accettò che la parola Filioque fosse inserita nella recita anche liturgica del credo, suscitando, in seguito, le giuste recriminazioni dell’oriente ortodosso.
Oggi, nel clima di dialogo e di mutua stima che si cerca di stabilire tra Ortodossia e Chiesa cattolica, questo problema non sembra più un ostacolo insormontabile alla piena comunione. Da parte di qualificati rappresentanti della teologia ortodossa si è disposti a riconoscere, a certe condizioni, la legittimità della dottrina latina. Ecco come il teologo Johannes Zizioulas espone tali condizioni:
“La regola d’oro deve essere l’interpretazione che dava san Massimo Confessore della pneumatologia latina e cioè: professando la dottrina del Filioque i fratelli occidentali non intendono introdurre una seconda causa (aition) in Dio al di fuori del Padre, d’altra parte il ruolo intermediario del Figlio nell’origine dello Spirito non deve essere limitato alla divina economia, ma si riferisce anche alla natura divina. Se Oriente e Occidente sono disposti nel nostro tempo a fare propri entrambi questi due punti di san Massimo, questo offrirebbe una base sufficiente per il riavvicinamento delle due tradizioni” .
Con queste parole si mantiene la posizione ortodossa che il Padre è l’unica causa “non causata” della processione dello Spirito Santo: ciò che non è incompatibile con la posizione sopra esposta di Agostino; d’altra parte, si riconosce la validità del punto di vista dei latini di attribuire al Figlio un ruolo attivo nella processione eterna dello Spirito Santo dal Padre, anche se non si condivide la loro precisazione “come da un solo principio” (tamquam ex uno principio).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla, a questo proposito, di una “legittima complementarietà che se non è irrigidita, non impedisce l’identità di fede nella realtà del mistero” . Nella stessa linea si esprime un documento del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani del 1995, sollecitato dal papa Giovanni Paolo II e positivamente accolto da esponenti della teologia ortodossa . Come segno di questa volontà di riconciliazione, lo stesso Giovanni Paolo II iniziò la pratica di omettere l’aggiunta Filioque “e dal Figlio”, in certe celebrazioni ecumeniche in San Pietro e altrove, in cui si proclamava il credo in latino.
2. Verso una nuova sintesi
Come sempre il dialogo, quando è fatto davvero “nello Spirito”, non si limita ad appianare le difficoltà del passato, ma apre nuove prospettive. La novità più grande nella pneumatologia attuale non consiste infatti solo nel trovare finalmente un accordo sul Filioque, ma nel ripartire dalla Scrittura in vista di una sintesi più ampia e con una spettro di domande più ampio e meno condizionato dalla storia passata.
Da questa rilettura, già da tempo avviata, è emerso un dato preciso: lo Spirito Santo, nella storia della salvezza, non è solo inviato dal Figlio, ma anche inviato sul Figlio; il Figlio non è solo colui che dà lo Spirito, ma anche colui che lo riceve. Il momento del passaggio dall’una all’altra fase della storia della salvezza, dal Gesù che riceve lo Spirito al Gesù che invia lo Spirito, è costituito dall’evento della croce .
Nel documento del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, già menzionato, troviamo un bel testo che riassume tutti questi interventi dello Spirito “su” Gesù: nella nascita, nel battesimo, nell’offrirsi in sacrificio al Padre (Ebr 9,14), nella sua risurrezione . Questo rapporto di reciprocità che si riscontra sul piano della storia non può non riflettere, in qualche modo, il rapporto che esiste nella Trinità. Lo stesso documento ricordato tira perciò la conclusione seguente:
“Il ruolo dello Spirito nel più intimo dell’esistenza umana del Figlio di Dio scaturisce da un rapporto trinitario eterno per il quale lo Spirito, nel suo mistero di dono d’amore, caratterizza la relazione tra il Padre fonte dell’amore e il Figlio prediletto” .
Ma come concepire questa reciprocità nell’ambito trinitario? È questo il campo che si apre alla riflessione attuale della teologia dello Spirito. La cosa incoraggiante è che in questa direzione si stanno muovendo insieme, in un dialogo fraterno e costruttivo, teologi di tutte le grandi Chiese cristiane: ortodossa, cattolica e protestante. Uno dei punti fermi da cui muoveva (e da cui fu condizionata) la riflessione dei Padri, e in particolare di Agostino, era la mancanza di reciprocità tra lo Spirito Santo e le altre due persone divine. Possiamo chiamare, dicevano, lo Spirito Santo “Spirito del Padre”, ma non possiamo chiamare il Padre “Padre dello Spirito”; possiamo chiamare lo Spirito Santo “Spirito del Figlio”, ma non possiamo chiamare il Figlio “Figlio dello Spirito” .
Questo è il punto in cui si cerca oggi di superare la difficoltà. È vero che non possiamo chiamare Dio “Padre dello Spirito”, ma possiamo chiamarlo “Padre nello Spirito”; è vero che non possiamo chiamare il Figlio “Figlio dello Spirito”, ma possiamo chiamarlo “Figlio nello Spirito”. La preposizione usata nella Scrittura per parlare dello Spirito Santo non è “da”, ma “in”; è “nello Spirito” che Cristo grida Abba sulla terra (cf. Lc 10, 21). Se ammettiamo che ciò che avviene nella storia è un riflesso di ciò che avviene nella Trinità, dobbiamo concludere che è “nello Spirito” che il Figlio pronuncia il suo Abba eterno nella generazione dal Padre . Il teologo ortodosso Olivier Clément ha anticipato questa conclusione dicendo che “Il Figlio nasce dal Padre nello Spirito” .
Emerge da ciò tutto un modo nuovo di concepire i rapporti trinitari. Il Verbo e lo Spirito procedono simultaneamente dal Padre. Bisogna rinunciare a ogni idea di precedenza tra i due, non solo cronologica, ma anche logica. Come unica è la natura che costituisce le tre divine Persone, così unica è l’operazione che ha la sua sorgente nel Padre e che costituisce il Padre “Padre”, il Figlio “Figlio” e lo Spirito “Spirito”. Figlio e Spirito Santo non vanno visti uno dopo l’altro, o uno accanto all’altro, ma ”uno nell’altro”. Generazione e processione non sono “due atti separati”, ma due aspetti, o due risultati, di un unico atto .
Come concepire e esprimere questo atto abissale da cui sboccia, tutta insieme, la mistica rosa della Trinità? Siamo davanti al nucleo più intimo del mistero trinitario che si colloca al di là di ogni concetto e analogia umana. Molto suggestivo mi sembra lo spunto offerto, a questo riguardo, dallo stesso teologo ortodosso Olivier Clément. Egli parla di una “unzione eterna” del Figlio da parte del Padre mediante lo Spirito . Questa intuizione ha un solido fondamento patristico nella formula “ungente, unto e unzione” usata nella più antica teologia dei Padri. Sant’Ireneo aveva scritto:
“Nel nome ‘Cristo’ si sottintende colui che unse, colui che fu unto e la stessa unzione con cui fu unto. Difatti, il Padre unse e il Figlio fu unto, nello Spirito che è l’unzione” .
San Basilio riprese alla lettera questa affermazione, ripetuta a sua volta da sant’Ambrogio . All’origine, essa si riferiva direttamente all’unzione storica di Gesù nel suo battesimo del Giordano. Successivamente, questa unzione fu vista realizzata già al momento dell’incarnazione ; ma già all’epoca dei Padri si cominciò a risalire indietro. Giustino, Ireneo, Origene avevano parlato di una “unzione cosmica” del Verbo, cioè una unzione che il Padre conferisce al Verbo in vista della creazione del mondo, in quanto “per mezzo suo il Padre ha unto e disposto ogni cosa” .
Eusebio di Cesarea si spinge ancora oltre, vedendo realizzata l’unzione al momento stesso della generazione: “La unzione consiste nella generazione stessa del Verbo, per la quale lo Spirito del Padre passa nel Figlio, a modo di divina fragranza” . Più autorevole è l’opinione di san Gregorio di Nissa che dedica un intero capitolo a illustrare la unzione del Verbo mediante lo Spirito Santo, nella sua generazione eterna dal Padre. Egli parte dal presupposto che il nome “Cristo”, Unto, appartiene al Figlio fin dall’eternità:
“L’olio di esultanza presenta la potenza dello Spirito Santo, con il quale Dio è unto da Dio, cioè l’unigenito è unto dal Padre…Come il giusto non può, contemporaneamente, essere ingiusto, così l’unto non può non essere unto. Ora colui che non è mai non-unto, è certamente l’unto da sempre. E chiunque deve ammettere che colui che unge è il Padre e l’unguento è lo Spirito Santo” .
L’immagine dell’unzione (perché sempre di un’immagine si tratta) aggiunge qualcosa di nuovo che non è espresso dall’immagine più usuale della spirazione. In occidente, si è soliti ripetere che lo Spirito si chiama così in quanto è spirato e in quanto spira. In questa visione, lo Spirito Santo svolge un ruolo “attivo” solo al di fuori della Trinità, in quanto ispira le Scritture, i profeti, i santi ecc., mentre nella Trinità avrebbe solo la qualità passiva di essere spirato dal Padre e dal Figlio.
Questa assenza di un ruolo attivo dello Spirito all’interno della Trinità, ritenuta la lacuna forse maggiore della pneumatologia tradizionale, in questo modo viene superata. Se infatti si riconosce al Figlio un ruolo attivo nei confronti dello Spirito, espresso dall’immagine della spirazione, si riconosce anche un ruolo attivo allo Spirito Santo nei confronti del Figlio, espresso con l’immagine dell’unzione. Non si può dire, del Verbo, che è “il Figlio dello Spirito Santo”, ma si può dire di lui che è “l’Unto dello Spirito”.
3. Lo Spirito di verità e lo Spirito di carità
Il rinnovato ascolto delle Scritture permette di costatare, anche da un altro punto di vista, la complementarietà delle due pneumatologie, orientale e occidentale. È stata notata, nell’ambito stesso del Nuovo Testamento, una maggiore accentuazione, da parte di Giovanni, dello “Spirito di verità” e, da parte di Paolo, dello “Spirito di carità” . “Spirito di verità”, nel Quarto Vangelo, è un altro nome del Paraclito (Gv 14, 16-17); gli adoratori del Padre devono adorarlo “in Spirito e verità”; egli conduce “alla verità tutta intera”; la sua unzione “da la scienza e insegna ogni cosa” (1 Gv 2, 20.27). Per Paolo invece l’effetto primario dello Spirito è di “effondere l’amore” nei cuori; frutto dello Spirito è “amore, gioia e pace” (Gal 5, 21); l’amore costituisce “la legge dello Spirito” (Rom 8, 2), l’amore è “la via migliore”, il dono dello Spirito Santo più grande di tutti (cf. 1 Cor 12,31).
Come è avvenuta per la dottrina su Cristo, anche questa diversa accentuazione circa lo Spirito Santo si mantiene nella tradizione, e, ancora una volta, l’Oriente riflette maggiormente la prospettiva giovannea e l’Occidente quella paolina. La pneumatologia ortodossa ha dato un maggior rilievo allo Spirito luce, e quella latina allo Spirito amore. Questa diversità è nettissima, in ogni caso, nelle due opere che più hanno influito sullo sviluppo delle rispettive teologie dello Spirito Santo. Nel trattato Sullo Spirito Santo di san Basilio, non svolge alcun ruolo il tema dello Spirito amore, mentre ne svolge uno centrale il tema dello Spirito “luce intelligibile” ; nel trattato Sulla Trinità di sant’Agostino, non svolge alcun ruolo il tema dello Spirito luce, mentre sappiamo che ne svolge uno centrale quello dello Spirito come amore.
La luce, con i fenomeni che di solito l’accompagnano (trasfigurazione della persona e la sua completa immersione interiore ed esteriore nella luce) è l’elemento più costante presso gli orientali, nella mistica dello Spirito Santo. “Vieni, o vera luce!”, sono le parole con cui inizia una preghiera allo Spirito Santo di san Simeone il Nuovo Teologo. Anche la famosa “luce taborica”, che tanta parte ha nella spiritualità e nell’iconografia orientale, è intimamente legata allo Spirito Santo . Un testo dell’ufficio ortodosso dice che, nel giorno di Pentecoste, “grazie allo Spirito Santo, il mondo intero ricevette un battesimo di luce” .
Concludo con un pensiero di sant’Agostino sullo Spirito amore che, applicato nei rapporti tra le diverse Chiese, farebbe fare un passo avanti decisivo verso l’unità dei cristiani. Commentando la dottrina di san Paolo in 1 Corinzi 12 sui carismi, sant’Agostino fa questa riflessione. Al sentire nominare tutti quei meravigliosi carismi (profezia, sapienza, discernimento, guarigioni, lingue), qualcuno potrebbe sentirsi triste ed escluso, perché pensa che lui non possiede nulla di tutto questo. Ma, attenzione, prosegue il santo,
“Se ami, quello che possiedi non è poco. Se, infatti, tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che possiedi tu. L’invidia separa, la carità unisce. Soltanto l’occhio, nel corpo, ha la facoltà di vedere; ma è forse soltanto per se stesso che l’occhio vede? No, esso vede per la mano, per il piede e per tutte le membra… Soltanto la mano agisce nel corpo; essa però non agisce soltanto per se stessa, ma anche per l’occhio. Se sta per arrivare un colpo che ha di mira, non la mano, ma il volto, forse che la mano dice: ‘Non mi muovo perché‚ il colpo non è diretto a me?” .
Ecco svelato il segreto per cui la carità è “la via migliore di tutte” (1 Cor 12, 31): essa mi fa amare il corpo di Cristo, o la comunità in cui vivo, e nell’unità tutti i carismi, non solo alcuni, sono “miei”. La carità moltiplica davvero i carismi; fa del carisma di uno il carisma di tutti. Basta non fare di se stessi, ma di Cristo, il centro di interesse; non voler “vivere per se stessi, ma per il Signore”, come dice l’Apostolo (Rom 14, 7-8).
Applicato ai rapporti fra le due Chiese, l’orientale e l’occidentale, questo principio porta a guardare a quello che ognuna di esse ha di diverso dall’altra, non come un errore o una minaccia, ma a rallegrarsene come una ricchezza per tutti. Applicato ai nostri rapporti quotidiani, dentro la stessa Chiesa o la comunità in cui viviamo, esso aiuta a superare i sentimenti naturali di frustrazione, di rivalità e di gelosia. “Beato quel servo –scrive san Francesco d’Assisi- che non si inorgoglisce (io aggiungo: e non si rallegra) per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro” . Lo Spirito Santo ci aiuti a incamminarci per questa via esigente, ma alla quale sono promessi i frutti dello Spirito: l’amore, la gioia e la pace.