«Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (Mt 18, 21)
Autore: Letizia Magri
Il capitolo 18 del vangelo di Matteo è un testo ricchissimo, nel quale Gesù dà istruzioni ai discepoli su come vivere i rapporti all’interno della comunità appena nata. La domanda che pone Pietro riprende le parole che Gesù aveva pronunciato poco prima: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…». Gesù sta parlando e, poco dopo, Pietro lo interrompe, come se si rendesse conto di non aver capito bene quello che il suo Maestro aveva appena detto. E gli pone una delle domande più rilevanti riguardo al cammino che deve percorrere un suo discepolo. Quante volte occorre perdonare?
«Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Interrogarsi fa parte del cammino di fede. Chi crede non ha tutte le risposte, ma resta fedele nonostante le domande. L’interrogativo di Pietro non riguarda il peccato contro Dio, ma piuttosto cosa fare quando un fratello commette colpe contro un altro fratello. Pietro pensa di essere un bravo discepolo che può arrivare a perdonare fino a sette volte. Non si aspetta la risposta immediata di Gesù che spiazza le sue sicurezze: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt v. 22). I discepoli conoscevano bene le parole di Lamec, il sanguinario figlio di Caino, che canta la ripetizione della vendetta fino a settanta volte sette. Gesù, alludendo proprio a questa affermazione, contrappone alla vendetta illimitata il perdono infinito.
«Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Non si tratta di perdonare una persona che offende continuamente, piuttosto di perdonare ripetutamente nel nostro cuore. Il perdono vero, quello che fa sentire liberi, di solito avviene per gradi. Non è un sentimento, non è dimenticare: è la scelta che il credente dovrebbe compiere, non solo quando l’offesa viene ripetuta, ma anche ogni volta che ritorna in mente. Per questo occorre perdonare settanta volte sette.
Scrive Chiara Lubich: «Gesù […] aveva di mira, dunque, soprattutto i rapporti fra cristiani, fra membri della stessa comunità. È dunque prima di tutto con gli altri tuoi fratelli nella fede che devi comportarti così: in famiglia, sul lavoro, a scuola o, se vi fai parte, nella tua comunità. Lo sai come spesso si vuole compensare con un atto, con una parola corrispondente, l’offesa subita. Sai come per diversità di carattere, o per nervosismo, o per altre cause, le mancanze di amore sono frequenti fra persone che vivono insieme. Ebbene ricordati che solo un atteggiamento di perdono, sempre rinnovato, può mantenere la pace e l’unità tra fratelli. Avrai sempre la tendenza a pensare ai difetti dei tuoi fratelli, a ricordarti del loro passato, a volerli diversi da come sono… Occorre che tu faccia l’abitudine di vederli con occhio nuovo e nuovi loro stessi, accettandoli sempre e subito e fino in fondo, anche se non si pentono».
«Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Tutti noi facciamo parte di una comunità di ”perdonati”, perché il perdono è un dono di Dio, del quale abbiamo sempre bisogno. Dovremmo sempre essere meravigliati dell’immensità della misericordia che riceviamo dal Padre, che ci perdona se anche noi perdoniamo i fratelli.
Ci sono situazioni in cui non è facile perdonare, vicende che derivano da condizioni politiche, sociali, economiche in cui il perdono può assumere una dimensione comunitaria. Molti sono gli esempi di donne e uomini che sono riusciti a perdonare anche nei contesti più duri, aiutati dalla comunità che li ha sostenuti.
Osvaldo è colombiano. È stato minacciato di morte e ha visto uccidere suo fratello. Oggi è a capo di un’associazione contadina, dove si occupa del recupero di persone che erano state direttamente coinvolte nel conflitto armato del suo paese.
«Sarebbe stato facile rispondere alla vendetta con altra violenza ma ho detto di no», spiega Osvaldo: «Imparare l’arte del perdono è molto, molto difficile, ma le armi o la guerra non sono mai un’opzione per trasformare la vita. La strada della trasformazione è un’altra, è poter toccare l’anima umana dell’altro e per fare questo non hai bisogno della superbia e di nessun potere: è necessaria l’umiltà che è la virtù più difficile da costruire».
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