Il ruolo della donna nella Chiesa
tratto da "Spontaneità e pluralismo nel Popolo di Dio" III
Autore: San Josemaría Escrivá
(Troppo spesso, quando si parla dei laici, ci si dimentica della presenza della donna nel mondo, e si finisce per lasciare nel “vago” il suo ruolo nella Chiesa. Allo stesso modo, quando si parla della “promozione sociale della donna”, si intende quasi sempre solo la presenza della donna nella sfera pubblica. Qual è il suo punto di vista sulla missione della donna nella Chiesa e nel mondo).
14. Innanzitutto, non mi pare che ci sia davvero nessun motivo per adottare un criterio di distinzione e di discriminazione nei confronti della donna quando si parla del laicato, del suo compito apostolico, dei suoi diritti e dei suoi doveri, ecc. Tutti i battezzati, sia uomini che donne, partecipano in eguale misura al patrimonio comune di dignità, libertà e responsabilità dei figli di Dio. Nella Chiesa vi è questa radicale unità di base che già san Paolo insegnava ai primi cristiani: «”Quicumque enim in Christo baptizati estis, Christum induistis. Non est Iudaeus, neque Graecus; non est servus, neque liber; non est masculus, neque femina”» (“Gal” 3, 27-28); non c’è più differenza fra ebreo e greco, fra schiavo e libero, e nemmeno fra uomo e donna.
Se prescindiamo dalla diversa capacità giuridica di ricevere gli ordini sacri – differenza che per molti motivi, anche di diritto divino positivo, ritengo che debba essere mantenuta -, alla donna vanno riconosciuti pienamente nella legislazione della Chiesa, nella sua vita interna e nella sua azione apostolica, gli stessi diritti e gli stessi doveri degli uomini. Per esempio: il diritto di apostolato, di fondare e dirigere associazioni, di manifestare responsabilmente la propria opinione su tutto ciò che riguarda il bene comune della Chiesa, e così via. So bene che tutto questo, pur essendo teoricamente pacifico (considerate le chiare ragioni teologiche su cui poggia), trova di fatto la resistenza di certe mentalità. Ricordo ancora la sorpresa e addirittura la critica con cui alcune persone – che ora invece tendono a imitare questo e altri aspetti – commentarono il fatto che nell’Opus Dei anche le donne appartenenti alla sezione femminile della nostra istituzione ottenessero i gradi accademici nelle scienze sacre.
Penso, comunque, che queste resistenze e reticenze cadranno a poco a poco. In fondo, non è che un problema di comprensione ecclesiologica: che si capisca cioè che la Chiesa non è formata soltanto dai chierici e dai religiosi, perché i laici, sia uomini che donne, sono anch’essi Popolo di Dio, e per diritto divino hanno una loro missione e una loro responsabilità.
Vorrei però aggiungere che, a mio avviso, l’uguaglianza essenziale fra l’uomo e la donna richiede anche una chiara coscienza del ruolo complementare che l’uno e l’altra sono chiamati a svolgere nell’edificazione della Chiesa e nel progresso della società civile: perché non senza motivo Dio li ha creati uomo e donna. Questa diversità non va intesa in senso “patriarcale”, ma in tutta la sua profondità, così ricca di sfumature e di conseguenze, che libera l’uomo dalla tentazione di “mascolinizzare” la Chiesa e la società; e la donna dalla tentazione di intendere la sua missione nel Popolo di Dio e nel mondo come mera rivendicazione del diritto di accedere ad attività che fino ad ora ha svolto solo l’uomo, ma che la donna è in grado di svolgere altrettanto bene. Sono convinto, perciò, che sia l’uomo che la donna devono giustamente sentirsi protagonisti della storia della salvezza, ma in modo reciprocamente complementare.
(Alcuni hanno fatto notare che “Cammino”, uscito nella sua prima versione nel 1934, conteneva molte idee che a taluni allora parevano “eretiche” e che oggi invece sono state riprese nel Concilio Vaticano II. Ci potrebbe dire qualcosa a questo riguardo? Quali sono queste idee?)
15. In merito a questa questione, se me lo consente, preferirei parlare con calma un’altra volta, fra un po’ di tempo. Per ora le dico soltanto che ringrazio molto il Signore che si è servito anche delle edizioni di “Cammino”, in tante lingue e in tante copie (oramai hanno superato i due milioni e mezzo), per far penetrare nella mente e nella vita di gente di ogni razza e lingua quelle verità cristiane che poi dovevano essere confermate dal Concilio Vaticano II, portando pace e gioia a milioni di cristiani e non cristiani.
(Sappiamo che da molti anni lei ha nutrito una preoccupazione tutta speciale per la cura spirituale e umana dei sacerdoti, e in particolare di quelli appartenenti al clero diocesano, come dimostra, fra l’altro, l’intenso lavoro di predicazione e di direzione spirituale da lei condotto, finché le fu possibile, con queste persone. Un’altra prova è la possibilità che ha offerto anche ai sacerdoti diocesani – che rimangono pienamente diocesani, con la medesima dipendenza dal loro Ordinario – di entrare a far parte dell’Opus Dei, se si sentono chiamati. Ci interesserebbe sapere quali furono le circostanze della vita della Chiesa che, almeno in parte, le ispirarono questa speciale preoccupazione. Gradiremmo anche che ci dicesse in che modo questa attività ha contribuito e può contribuire a risolvere certi problemi del clero diocesano o della vita ecclesiastica.)
16. Le circostanze della vita della Chiesa che ispirarono e che ispirano questa mia preoccupazione e questa attività – ora istituzionalizzata – dell’Opus Dei, non sono accidentali o transitorie: sono esigenze permanenti di ordine spirituale e umano intimamente unite alla vita e al lavoro del sacerdote diocesano. Penso soprattutto alla necessità che ha il sacerdote di essere aiutato – con una spiritualità e con dei mezzi che lascino intatta la sua condizione diocesana – a ricercare la santità personale nell’esercizio del suo ministero, per corrispondere così, con animo sempre giovane e con generosità sempre maggiore, alla grazia della vocazione divina che gli è stata data, e per sapersi premunire con prudenza e prontezza dalle eventuali crisi spirituali e umane che possono essere facilmente provocate da diversi fattori: la solitudine, le difficoltà dell’ambiente, l’indifferenza, l’apparente inutilità del proprio lavoro, la monotonia, la stanchezza, il disinteresse nel conservare e perfezionare la propria formazione intellettuale, o addirittura – ed è questa la radice profonda delle crisi di obbedienza e di unità – la scarsa visione soprannaturale con cui sono impostati i rapporti con il proprio Ordinario e anche con i confratelli sacerdoti.
I sacerdoti diocesani che – facendo legittimo uso del diritto di associazione – aderiscono alla Società sacerdotale della Santa Croce (Opus Dei) , lo fanno per un solo e unico motivo: perché desiderano ricevere questo aiuto spirituale personale in modo pienamente compatibile con i doveri del loro stato e del loro ministero. Se così non fosse, questo aiuto non sarebbe un aiuto ma una complicazione, un impedimento e un disordine.
La spiritualità dell’Opus Dei, infatti, ha come caratteristica essenziale quella di non togliere nessuno dal posto che occupa – “unusquisque, in qua vocatione vocatus est, in ea permaneat” (1 Cor 7, 20) -; essa esige, anzi, che ciascuno assolva ai compiti e ai doveri del proprio stato, della propria missione nella Chiesa e nella società civile, con la massima perfezione possibile. Per questo motivo, quando un sacerdote aderisce all’Opus Dei, non abbandona né modifica minimamente la sua vocazione diocesana, cioè la dedicazione al servizio della Chiesa locale a cui è incardinato, la piena dipendenza dal proprio Ordinario, la spiritualità secolare, l’unione con gli altri sacerdoti, e così via; ma anzi si impegna a vivere la sua vocazione con la maggior pienezza, perché sa che deve tendere alla perfezione nell’adempimento dei suoi obblighi sacerdotali proprio come sacerdote diocesano.
Questo principio ha nell’Opus Dei tutta una serie di applicazioni pratiche di carattere giuridico e ascetico che sarebbe lungo specificare. Basterà, a titolo di esempio, che le faccia notare che, a differenza di quanto avviene in certe associazioni, in cui si richiede un voto o una promessa di ubbidienza ai superiori interni, la dipendenza dei sacerdoti diocesani che aderiscono all’Opus Dei non è una dipendenza gerarchica giacché non vi è per loro una gerarchia interna, né quindi il pericolo di un doppio vincolo di obbedienza: vi è piuttosto un rapporto volontario di aiuto e di assistenza spirituale.
Ciò che essi trovano nell’Opus Dei è soprattutto l’aiuto ascetico continuativo che desiderano ricevere secondo una spiritualità secolare e diocesana, indipendente dai cambiamenti di persone e di circostanze che si possono verificare nel governo della rispettiva Chiesa locale. In tal modo essi aggiungono alla direzione spirituale collettiva che dà il Vescovo (con la sua predicazione, le sue pastorali, le sue conversazioni, le sue istruzioni disciplinari, ecc.), anche una direzione spirituale personale, sollecita e ininterrotta, dovunque si trovino, che viene a completare, rispettandola sempre come un dovere grave, la direzione comune impartita dal Vescovo. Mediante questa direzione spirituale personale, che tanto hanno raccomandato il Concilio Vaticano II e il Magistero ordinario, si fomenta nel sacerdote la vita di pietà, la carità pastorale, la non interrotta formazione dottrinale, lo zelo per le opere d’apostolato della diocesi, l’affetto e l’obbedienza che lo devono legare all’Ordinario, la preoccupazione per le vocazioni sacerdotali e il seminario, ecc.
I frutti di questo lavoro? Sono per le Chiese locali, al cui servizio sono dediti questi sacerdoti. E di ciò si rallegra il mio cuore di sacerdote diocesano, che ha avuto oltretutto il conforto di vedere, molte volte, con quale affetto il Papa e i Vescovi benedicono, auspicano e incoraggiano questo lavoro.
(Parecchie volte, riferendosi agli inizi dell’Opus Dei, lei ha detto che non aveva altro che “gioventù, grazia di Dio e buon umore”. D’altra parte, negli anni Venti, la dottrina sul laicato non aveva raggiunto lo sviluppo che notiamo oggi. Malgrado questo, l’Opus Dei è un fenomeno di rilievo nella vita della Chiesa. Ci potrebbe spiegare come ha potuto, essendo un giovane sacerdote, avere una visione così ampia da permettere un’impresa del genere?)
17. La mia unica preoccupazione è stata ed è sempre quella di compiere la volontà di Dio. Mi consenta di non precisare altri particolari sugli inizi dell’Opera (che l’Amore di Dio mi faceva presentire fin dal 1917), perché formano un tutt’uno con la storia della mia anima e appartengono alla mia vita interiore. La sola cosa che le posso dire è che ho sempre agito con il permesso e l’affettuosa benedizione del carissimo Vescovo di Madrid, la città in cui nacque l’Opus Dei, il 2 ottobre 1928. Poi, in seguito, ho agito sempre con l’approvazione e l’incoraggiamento della Santa Sede, e con quello, per ogni caso, degli Ordinari dei luoghi in cui si svolge il nostro lavoro.
(Qualcuno, osservando la presenza di membri dell’Opus Dei in posti di rilievo della vita pubblica spagnola, parla dell’influenza dell’Opus Dei in Spagna. Ci potrebbe spiegare qual è questa influenza?)
18. Mi infastidisce tutto ciò che può avere la parvenza di autoincensazione. Ma mi pare che non sarebbe vera umiltà, bensì cecità e ingratitudine verso Dio, che con tanta generosità benedice il nostro lavoro, non riconoscere che l’Opus Dei influisce effettivamente nella società spagnola. Nell’ambiente dei Paesi in cui l’Opera lavora già da diversi anni, è naturale che il suo influsso abbia ormai una notevole ripercussione sociale, in proporzione al progressivo sviluppo delle attività; in Spagna, in particolare, l’Opus Dei opera da trentanove anni, perché è qui che il Signore volle che la nostra istituzione nascesse nel seno della Chiesa.
Qual è la natura di questa influenza? È evidente che, dal momento che l’Opus Dei ha fini spirituali, d’apostolato, la natura del suo influsso – sia in Spagna che nelle altre nazioni dei cinque continenti in cui lavoriamo – non può che essere di quel genere: un’influenza spirituale, apostolica. Come quello della Chiesa intera, anima del mondo, l’influsso dell’Opus Dei sulla società civile non è di carattere temporale – e cioè sociale, politico, economico, e così via -, benché indubbiamente incida sugli aspetti etici di tutte le attività umane; esso è sempre un influsso di ordine diverso e superiore, che si esprime con un verbo ben preciso: “santificare”.
E con questo arriviamo al discorso sulle persone dell’Opus Dei che lei definisce influenti. Per un’associazione il cui scopo sia una determinata azione politica, saranno “influenti” quei soci che hanno un seggio al parlamento o al governo. Se si tratta di una associazione culturale, si considerano “influenti” quei soci che siano dei filosofi di chiara fama, che abbiano avuto un premio letterario di rilievo, ecc. Se invece lo scopo che si propone l’istituzione è – come nel caso dell’Opus Dei – la santificazione del lavoro quotidiano degli uomini, tanto quello manuale come quello intellettuale, è evidente che dovranno considerarsi influenti tutti i suoi soci: perché tutti lavorano (il dovere di lavorare, comune a tutti, ha nell’Opus Dei speciali conseguenze di ordine normativo e ascetico), e perché tutti cercano di compiere il loro lavoro, qualunque esso sia, in modo santo, in modo cristiano, con impegno di perfezione. Per questo motivo, io considero tanto “influente” – tanto importante e necessaria – la testimonianza di un mio figliolo minatore in mezzo ai suoi compagni di lavoro, quanto quella di un rettore di università in mezzo ai professori del senato accademico.
Da dove viene, quindi, l’influenza dell’Opus Dei? La risposta sta nella semplice considerazione di questa realtà sociologica: all’Opera appartengono persone di tutte le condizioni sociali, di tutte le professioni, di tutte le età e di tutti gli stati di vita; uomini e donne, sacerdoti e laici, vecchi e giovani, celibi e coniugati, studenti e operai, contadini e impiegati, liberi professionisti e funzionari di enti pubblici… Ha mai pensato al potere di irradiazione cristiana rappresentato da una gamma di persone così vasta e varia, tanto più che sono decine di migliaia e tutte animate dal medesimo spirito apostolico, dal medesimo anelito di santificare la propria professione o il proprio mestiere – qualunque sia l’ambiente sociale in cui operano -, di santificarsi nel lavoro, e con il lavoro santificare gli altri?
A queste attività apostoliche personali bisogna aggiungere lo sviluppo delle nostre opere proprie di apostolato: collegi universitari, case per ritiri spirituali, l’Università di Navarra, centri di qualificazione per operai e contadini, istituti tecnici, scuole secondarie, istituti professionali femminili, ecc. Queste attività sono state e sono indubbiamente centri di irradiazione di spirito cristiano. Promosse da laici, gestite come lavoro professionale da cittadini laici, del tutto uguali ai colleghi che svolgono la stessa attività o mestiere, e aperte a persone di ogni ceto e condizione, queste attività hanno sensibilizzato vasti strati della società sulla necessità di dare una risposta cristiana ai problemi posti a ciascuno dall’esercizio della propria professione o del proprio impiego.
Tutto questo è ciò che dà rilievo e importanza sociale all’Opus Dei. Non la circostanza che qualcuno dei suoi soci occupi dei posti di “influenza umana” – la qual cosa non ci interessa per nulla, ed è lasciata alla libera decisione e responsabilità di ognuno – bensì il fatto che tutti (e la bontà di Dio fa che siano molti) svolgano un lavoro – anche il mestiere più umile – divinamente influente.
E questo è logico: chi potrebbe pensare che l'”influenza” della Chiesa negli Stati Uniti sia cominciata il giorno in cui fu eletto presidente il cattolico John Kennedy?
(In qualche occasione, parlando della realtà dell’Opus Dei, lei ha affermato che si tratta di una “disorganizzazione organizzata”. Potrebbe spiegare ai nostri lettori il significato di questa espressione?)
19. Intendo dire che noi attribuiamo un’importanza primaria e fondamentale alla “spontaneità apostolica della persona”, alla sua libera e responsabile iniziativa, sotto la guida dello Spirito; e non alle strutture organizzative, agli ordini, alle tattiche, e ai programmi imposti dall’alto, in sede di governo.
Un minimo di organizzazione esiste, logicamente: c’è un organo direttivo centrale, che funziona sempre collegialmente e ha la sede a Roma, e ci sono degli organi regionali, anch’essi collegiali, presieduti da un Consigliere . Ma tutto il lavoro di questi organismi tende essenzialmente a una sola meta: fornire ai soci l’assistenza spirituale necessaria per la loro vita di pietà, e una adeguata preparazione spirituale, dottrinale e umana. Poi, ciascuno impari a nuotare! Agisca cioè come vero cristiano per santificare le vie degli uomini, perché tutte hanno il profumo del passaggio di Dio.
Arrivato dunque a questo limite, l’Opus Dei come tale ha esaurito il suo compito – quello stesso per cui i soci si sono associati -, e non ha più nessun’altra indicazione da dare: non può e non deve farlo. Da quel momento comincia la libera e responsabile azione personale di ciascuno dei soci. Ognuno – con spontaneità apostolica, agendo con piena libertà e formandosi con autonomia la propria coscienza di fronte alle decisioni concrete che deve prendere – ognuno, dico, si sforza di tendere alla perfezione cristiana e di dare una testimonianza cristiana nel proprio ambiente, santificando il proprio lavoro manuale o intellettuale. Naturalmente dal momento che ciascuno prende con autonomia queste decisioni nella sua vita secolare, nelle realtà temporali in cui agisce, si osservano spesso opzioni, criteri e modi di agire diversi: in altri termini, si produce questa benedetta “disorganizzazione”, questo giusto e necessario pluralismo che è una caratteristica essenziale del buono spirito dell’Opus Dei, e che a me è sembrato sempre l’unico modo retto e giusto di concepire l’apostolato dei laici.
Le dirò di più: questa “disorganizzazione organizzata” appare anche nelle stesse opere d’apostolato che l’Opus Dei promuove come tale, nell’intento di contribuire – anche sul piano associativo – a risolvere cristianamente i problemi che si pongono alle comunità umane dei diversi Paesi. Queste attività e iniziative dell’Opera hanno, sempre, un carattere direttamente apostolico: sono cioè opere educative, assistenziali o di beneficenza. Ma dato che è proprio del nostro spirito stimolare lo scaturire di iniziative “dalla base”, e dato anche che le circostanze, i bisogni e le possibilità di ogni nazione o gruppo sociale sono peculiari e generalmente assai diversi da un caso all’altro, la direzione centrale dell’Opus Dei lascia alle direzioni regionali (che godono di un’autonomia pressoché totale) la responsabilità di determinare, promuovere e organizzare le attività apostoliche che ritengono più opportune: può trattarsi di un centro d’istruzione superiore o di un collegio universitario, come pure di un ambulatorio medico o di una scuola agraria. Come logico risultato, disponiamo di un molteplice e variopinto mosaico di attività: un mosaico “organizzatamente disorganizzato”.
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